Luigi Campagner ha pubblicato in vendita, nello shop online della Casa Editrice dell’Associazione Odòn, il libro L’inganno nell’amore. Le figure della seduzione in Kierkegaard L’approccio di uno psicoanalista.

Un libro sul fidanzamento di Soren Kierkegaard con Regine Olsen, ricco di spunti e molto stimolante anche sul versante della tecnica psicoanalitica. La Prefazione è di Giacomo B. Contri.

In occasione della ricorrenza di San Valentino, la festa degli innamorati, presentiamo l’intervista dello psicoanalista Giovanni Callegari all’autore incentrata sui temi dell’amore e del transfert e della tecnica psicoanalitica. L’intervista è preceduta dalla cronologia essenziale dei fatti.

Cronologia di un innamoramento

Soren Kierkegaard (1813-1855) incontra per la prima volta Regine Olsen (1823-1904) in casa dell’amico Peter Rordam, che egli frequenta per corteggiarne la figlia ventiduenne Bolette.

All’epoca Kierkegaard ha 24 anni e Regine Olsen, figlia del Consigliere di Stato Terkel Olsen, ne ha 14. Pur conoscendo le simpatie di Regine per Frederik Schlegel, Kierkegaard le si dichiara apertamente e ne chiede formalmente la mano al padre.

Nei giorni che seguono la sua dichiarazione (8-10 ottobre 1840) Kierkegaard cade preda del rimorso: “oseresti mai fidanzarti, oseresti tu sposare?” scrive sul Diario. 

Immagine di Regine Olsen
Regine Olsen, la donna della vita di Kierkegaard

Inizia un anno di fidanzamento nel quale Regine si coinvolge sempre più con l’austero fidanzato, fino al culmine della massima oblatività. In questo clima Kierkegaard le dà notizia della volontà di rompere il fidanzamento. È un atto grave, che lede l’onore e la rispettabilità della giovane: a quel tempo infatti la rottura di un fidanzamento trovava unica giustificazione nell’infedeltà della donna vista come imperdonabile tradimento di una promessa. La ragazza è gettata nello sconforto, tormentata da pensieri suicidari lo apostrofa come “il più infame degli infami mascalzoni”. 

Kierkegaard le restituisce l’anello, suggellando la rottura con una lettera privata che pubblicherà integralmente nell’opera Gli atti dell’amore (1847). 

Il 3 novembre 1847 Regine sposa Frederik Schlegel. “Così giovane, già capo sezione al Ministero” commenta acido Kierkegaard sul Diario, dove inizia ad attaccarla.

Sul Diario, scrive Il mio rapporto con Lei, una sezione dedicata al fidanzamento con il sottotitolo Un che di poetico. In questo testo Kierkegaard rivendica la preminenza del suo legame spirituale rispetto al legame terreno con Schlegel. 

Il 17 maggio 1855 Regine segue il marito, nominato Governatore delle Antille Danesi. Il giorno prima della partenza incontra Kierkegaard e lo benedice. 

L’11 novembre dello stesso anno Kierkegaard muore a seguito di un malore che lo ha colpito un mese prima. Il lascito universale a Regine viene rifiutato con lettera di Frederik Schlegel del 14 gennaio 1856.

È famigliare agli psicoanalisti il binomio amore e transfert, articolato anche nella formulazione amore di transfert. Vorrei iniziare il dialogo con lei dal transfert. Come definirebbe oggi la gestione del transfert in un percorso analitico? Anche in riferimento a quanto emerge dal comportamento di Kierkegaard nel fidanzamento con la giovane Regine?

Rispetto a Kierkegaard il primo richiamo al transfert viene dall’aver pensato al famoso episodio del fidanzamento e della rottura del fidanzamento con Regine, non tanto come un “appuntamento mancato”, ma come un programma, antagonista al regime dell’appuntamento, nel quale vige l’imperativo negativo: deve accadere niente!

Transfert è il nome di un legame, o meglio il nome di un affetto, sapendo che gli affetti non sono univoci, ce ne sono di positivi e di negativi. Il transfert, nell’analisi, è portare qualcosa a qualcuno, a partire dal portare sé stessi all’appuntamento. Fin tanto che c’è analisi, c’è questo trasporto di materiali a qualcuno, affinché vengano trasformati in un lavoro a due.

Il caso del transfert negativo, cioè dell’obiezione a questo rapporto, è quello che è intravedibile in Kierkegaard nei confronti di Regine, che viene convocata a un trasporto amoroso con l’inganno perché questo trasporto amoroso è finalizzato a “far accadere nulla”, ovvero all’annullamento della pulsione, attraverso l’annullamento della meta.

Nel libro ho fatto un cenno all’attenzione che l’analista deve avere sull’inganno che può essere portato in seduta da chi si presenta all’appuntamento con il solo scopo di dimostrare a sé stesso e al mondo dei suoi rapporti che comunque non accade nulla, non ci riesce neanche l’analista. Pur concedendo un numero (limitato) di errori, l’analista dovrebbe essere in grado di non cominciare l’analisi con un paziente che abbia questo tipo di ambizione.

Quindi che tipo di legame affettivo mette in atto Kierkegaard?

L’affetto predominante in Kierkegaard è la melanconia. Oggi la melanconia è misconosciuta, quindi è molto più pericolosa. Essendo stata estromessa dall’ambito della psicologia, perché non esiste né nel manuale diagnostico PDM né nel DSM, questa patologia difficilmente trattabile diventa ancor più pericolosa.

Nella definizione di Kierkegaard la melanconia è un’esistenza ante acta, cioè un’esistenza astinente per principio, da ogni atto, da ogni comportamento, da ogni iniziativa e proposta di qualche cosa di positivo, perché comunque sarebbe un fallimento.

La melanconia è la rinuncia a priori, anche al semplice tentativo, perché la riuscita non è possibile, è una non-ricerca giustificata dall’assenza della meta. Il contrario della frase di Giovanni Gastel, il noto fotografo di moda: “Sono sempre andato alla ricerca di qualcosa di nuovo”, “Essendo certo che l’avrei trovata”. La melanconia, come psicopatologia, è la percezione che qualcosa per il soggetto è accaduto, ma solo nel passato, il melanconico è un uomo o una donna senza futuro, perché non accadrà più nulla di significativo. E’ una vita totalmente sbilanciata nel ricordo.

In Kierkegaard questo diventa un’attitudine: trasformare ogni istante dell’esperienza in ricordo. In lettera morta. La rimozione in Kierkegaard non ha la forma della dimenticanza, ma del ricordo. Kierkegaard avvolge ogni istante dell’esperienza nel velo del ricordo.

Il “caso clinico” di Kierkegaard lo possiamo ritrovare nella modernità? Oggi ci sono casi clinici di questo genere?

Principalmente lo troviamo capovolto, non nella forma del divieto astinente imposta dal Super-Io censore messa in luce da Freud, ma in quella dell’istigatoreosceno e feroce” di cui ha parlato Lacan. L’attualità di Kierkegaard sta tutta nel fatto che l’instabilità che avrebbe prodotto il capovolgimento è già presente. Per questo nell’introduzione ho affermato che il progetto di Kierkegaard con Regine è speculare a quello di Sade con Eugenie, l’eroina porno libertina de La Philosophie dans le boudoir.

Credo che un melanconico tout court come era Kierkegaard non avrebbe cercato un analista e, se lo avesse cercato, sarebbe stato solamente per dimostrargli che il suo era un caso di natura eccezionale. Questo fa parte della teoresi di Kierkegaard che teorizza il singolo come un’eccezione, come uno che è costantemente fuori da ogni norma, niente fa al caso suo.

Immagine della La Melencholia di Albrecht Dürer
La Melencholia di Albrecht Dürer

Allora il transfert diviene un veicolo fondamentale per posizionare l’analista in merito alla patologia dell’analizzante?

Mi è capitato di sentire (o leggere) G.B. Contri, dove informa di aver accettato una domanda di analisi da una persona che aveva letto un suo articolo sulla melanconia.

Peraltro l’immagine della Melanconia di Albrecht Dürer fa parte del logo di Studium Cartello (ora SAP – Società Amici del Pensiero – S. Freud)

Cosa rappresenta?

Rappresenta una donna abbandonata a sé stessa, dominata da quella che i medioevali avrebbero chiamato accidia. Al suo fianco c’è una clessidra. E’ una donna senza tempo, perché il tempo ha senso solo se accade qualcosa, quindi è una donna a cui non accade più nulla.

Per azionare il tempo della clessidra ci vuole un atto, devi girarla, se non compi un atto, non hai tempo, non determini il tempo. Riprendendo l’esempio di Contri, se un melanconico si riconoscesse malato di quel malessere, allora l’analista potrebbe riconoscergli il merito di aver compiuto un atto dove si riconosce sofferente, malato di quella specifica patologia. A questo punto potrebbe prenderlo in analisi. 

Nel libro gli accostamenti di Kierkegaard con Freud e Lacan sono numerosi. Può approfondire queste coraggiose connessioni?

A mettere Kierkegaard sul campo psicoanalitico è stato Lacan, che lo ha commentato più volte. I nessi con Freud sono venuti di conseguenza. Kierkegaard è stato bravo in una cosa, perché ha descritto un triangolo, che poi viene ripreso anche da Lacan: la donna è la donna del padre.
È il triangolo Freudiano commentato anche da Contri che (come spesso gli accade) mette le cose coi piedi per terra: mia madre è la donna che ama mio padre. Ma è un Kierkegaard già supplementato da Lacan, nel senso che Kierkegaard afferma di non aver avuto accesso alla donna per un’ostativa del padre, che lo avrebbe inchiodato alla posizione melanconica. Ora tutta la vicenda personale di Kierkegaard è una vicenda di sterile ribellione al rigore del padre. Nel libro ho richiamato il passaggio in cui Freud parla “dell’obbedienza posticipata“.

Perché sterile? In fondo la sua era una ribellione giusta.

Sterile perché non arriva mai a fare la propria strada, lasciandosi il genitore alle spalle. Invece ne fa un totem, anche nel senso di crearsi una giustificazione inconscia: lui non vuole, io non posso. Al massimo posso trasgredire. Kierkegaard non perviene alla soluzione che era stata già di Francesco d’Assisi: “non ti chiamerò più padre”. Nella patologia accade spesso così: non solo non si trovano soluzioni, ma non si riesce neppure a trarre vantaggio dalle soluzioni già pensate da altri.

Kierkegaard resta fissato a una ribellione e, dopo la morte del padre, fissato a un’obbedienza posticipata. Per cui, ad esempio, la laurea in teologia presa successivamente alla morte del padre, quando nessuno si sarebbe mai aspettato che lui si laureasse. Il suo non laurearsi era una forma di ribellione. Fin tanto che il padre è restato in vita, non gli ha dato la soddisfazione di laurearsi in teologia. Quando è morto, invece, si fissa alla teologia, occupandosi solo di questioni religiose. Ricalcando così le orme del padre, che alla nascita di Soren già non si occupava più di affari, ma solo di questioni religiose.

Questa forma di ribellione, Kierkegaard la ostenterà anche nei confronti del “grande Altro”, come direbbe Lacan, nel senso che la ostenta nei confronti della società, perché non accede ad una professione, non accede ad un’associazione, non accede ad un circolo né politico, né letterario, né religioso. In un gioco “per versi diversi” nega ogni forma di socialità, perché Kierkegaard eccitava un interesse da parte di molti attori, sia religiosi che politici che dell’arte. Eccitamento che mandava costantemente deluso, come ben sapevano i redattori del Corsaro, il giornale progressista che finirà col prenderlo di mira con le famose caricature.

Immagine di Kierkegaard alla scrivania

Nel rapporto col padre trova centrale l’elemento fissazione?

La fissazione è il quarto elemento della psicopatologia, aggiunto da Giacomo B. Contri alla triade Freudiana: inibizione, sintomo, angoscia. La fissazione tiene assieme i primi tre elementi. Li cementifica, fissandosi sull’agente patogeno.

La dipendenza patologica nei confronti del padre sta anche nel fatto che Kierkegaard non diventa mai autonomo. Un ulteriore elemento della sua fissazione nei confronti del padre è la sua dipendenza economica, per cui vive delle risorse paterne fino alla fine, quando finiscono le risorse paterne, quando si estingue il patrimonio lasciatogli dal padre, anche Kierkegaard muore.

Questo dramma Kierkegaard lo rappresenta di continuo, nelle figure di Abramo con Isacco, nel suo rapporto con Regine, ma anche nella dialettica tra Don Giovanni e Leporello e in quella tra Don Giovanni e Donna Elvira. Di Donna Elvira dice di non saper definire meglio il suo rapporto con Don Giovanni se non come un “odio amoroso”. Pur scrivendo il Don Giovanni, un’opera impareggiabile, Kierkegaard si identifica con Donna Elvira: con la vittima della seduzione, così come nel dramma di Abramo e Isacco si identifica con Isacco.

La statura di Kierkegaard sta nel fatto che la posizione di eccezione, che lo fa stare da solo, è una posizione, radicale, di critica sociale. Critica di una società in cui aveva creduto. Diversamente da quanto era successo ad altri nella storia, ad esempio gli eremiti (Antonio d’Egitto o lo stesso Francesco d’Assisi), che si sono radicalmente dissociati da una società e da una civiltà, ma ne hanno generata un’altra su basi differenti, la sua posizione è sterile: non crede che la società e la civiltà siano riformabili, né al livello dell’individuo né della polis.

Mi sono laureato con una tesi su P.-J. Proudhon (l’autore de La proprietà è un furto), un socialista utopico contemporaneo a Marx, che era noto come “picconatore” per la veemenza della sua critica e la radicalità delle sue tesi. Con tutto ciò, Proudhon aveva un ideale sociale positivo, una forma di legame che avrebbe voluto realizzare. Era utopistico, però lo aveva.

In Kierkegaard questo ideale è l’annichilimento della pulsione, quindi non c’è una meta positiva alla quale la civiltà potrebbe arrivare. Tuttavia trovo che confrontarsi con il radicale anticonformismo di Kierkegaard sia molto utile alla psicologia e alla psicoanalisi che spesso vengono intese come strumenti per perfezionare il conformismo sociale. O per rammendarne gli strappi, dimenticando che la psicopatologia, che è pensiero, contiene un’istanza di protesta e di libertà, che portare a meta, concludendo una ri-forma personale e civile, è compito dell’analisi.

La sua pratica psicoanalitica quanto può motivare i suoi interessi culturali e filosofici che possono esulare dalla clinica? La ricerca su uomini come Eichmann e Kierkegaard di quali sue competenze analitiche si avvale?

Il mio interesse è per il pensiero. Il proprio della psicoanalisi in cui mi riconosco, è rifiutarsi di distinguere il pensiero (p piccolo) dalla Cultura (P grande) e di trattare il pensiero del bambino e del singolo paziente alla stregua del pensatore di rango (e viceversa).

Il vantaggio della psicoanalisi, che è pensiero, rispetto alla filosofia, che è pensiero, è dato da una distinzione, perché la psicoanalisi si occupa di una patologia del pensiero, il cui soggetto è il corpo e i cui effetti, come sintomo, andremo a trovare nel corpo. Tuttavia non è una patologia del corpo, bensì del pensiero che – come Contri ha tradotto la pulsione – elabora la legge del moto del corpo. Il vantaggio della psicoanalisi è la distinzione tra pensiero sano e pensiero malato.

Nella psicopatologia l’agente patogeno non è fisio-logico, ma logico. La filosofia volendo distinguere delle sezioni, quindi distinguere il pensiero teoretico dal pensiero clinico, fa sì che il pensiero teoretico, in quanto tale vada sempre bene. Invece Freud parla di Kant come di una filosofia super-egoica, Lacan rincara la dose associandolo a Sade…

L’agente patogeno è a sua volta un pensiero, che “attacca” il pensiero sano sotto forma di teoria patogena. Contri ha concluso che il simbolico Lacaniano vada riformulato come teoria, che i simboli presenti nel pensiero, che in qualche modo lo occupano, lo tiranneggiano, sono presenti in forma di teorie. Ecco, l’inibito, cioè il nevrotico, resta soggetto a queste teorie patogene fino tanto che non riesce a svelarne l’inganno. Cosa che avviene solo sulla via della guarigione, come si direbbe, sulla via di Damasco.

La psicoanalisi è stata definita una cura con le parole, Lacan ha aggiunto che l’inconscio è strutturato come un linguaggio con i diversi significanti e significati. Lei ha detto che per Contri il significante si “articola” in teorie…

Secondo Contri significante significa: cretino! Nel senso detto prima, della teoria che non viene svelata come tale. Nel libro ho riportato Roland Barthes, su cui Contri fece una tesi in Francia, che assimila il linguaggio al fascismo, pensiero perfettamente in linea con il simbolico lacaniano.

Il soggetto riceve un linguaggio con dei simboli e dei significati. Nell’ipotesi strutturalista, che è quella dove prevalentemente si muove Lacan, il soggetto non avrebbe alcuna facoltà di divincolarsi da questo involucro nel quale nasce. Ciò configura una sorta di alienazione primaria nel linguaggio stesso. Nell’idea di Contri c’è la possibilità di riesaminare la “trasmissione”, passandola così a “eredità con beneficio di inventario”, di lasciar cadere il patologico, di salvare il salvabile, e su questo elemento costruire un nuovo edificio.

In analisi non si tratta semplicemente di andare a riprendere qualche cosa del passato, ma di costruire qualcosa nel futuro. Il bambino sano non equivale all’adulto sano, perché per quanto l’adulto guarito riscopra qualcosa di sé bambino, questa sua ripresa di consapevolezza deve essere giocata nella dimensione della vita adulta, che non ha niente a che fare con la dimensione della vita infantile.

Non è troppo ottimistico? Lacan ad esempio relativizzava la guarigione.

E faceva bene, perché ciascuno guarisce a modo suo. La guarigione è sempre relativa… Però c’è un punto dirimente: se siamo alienati nel linguaggio, come ne usciamo? Anzitutto siamo interni a una conquista, non a una perdita, a un’acquisizione, a un progresso, a una civiltà… ma soprattutto il linguaggio è un prodotto del nostro corpo, e ciascuno parte e ri-parte, da questa “esperienza elementare” del proprio corpo che offre a ciascuno un accesso non mediato al “sistema binariopiacere-dispiacere. I due elementi con i quali si costruisce la civiltà. È l’esperienza primaria del corpo pulsionale che permette di muoversi nell’“universale paragone” – come avrebbe detto Luigi Giussani – senza essere alienati, espropriati del principio di piacere individuale come principio legislativo del moto del corpo.

Immagine di Regine Olsen
Regine Olsen, 1840

Ci sono poi delle situazioni di deprivazione tale che possono ritrovarsi in certe istituzionalizzazioni come oggigiorno certe comunità per minori, dove alcuni minori possono essere stati così tanto deprivati da una eredità iniziale, che non avrebbero nessuna convenienza a riferirsi ai propri genitori. In questi casi la fissazione ad un ideale genitoriale costituisce una fissazione a un’esperienza di mancanza, e quindi impedirà l’accesso a un’esperienza minimamente soddisfacente. L’alternativa è invece di costruire nuove relazioni, senza rimanere fissati a quelle genitoriali, ma patogene dall’inizio.

Nel testo fa un parallelismo tra Kierkegaard e il Presidente Schreber nel celebre testo di Freud interpretativo del testo “Memorie di un malato di nervi” dello stesso Schreber.

Il caso del presidente Schreber è descritto da Freud come lo studio su un caso di paranoia. Approfondendo i testi sono emersi dei punti di contatto fra quanto descritto da Freud e quanto Kierkegaard descrive di sé stesso nel Diario. Anzitutto l’aspetto della paranoia presente in Kierkegaard. Nella sua riflessione l’altro è presente come persecutore, in quanto responsabile di un eccitamento. In questo caso l’altro persecutore è la donna, che muove l’interesse, l’eccitazione. Poi, in modo clamoroso, il parallelismo si è imposto perché Schreber si rappresenta come la “prostituta di Dio” e Kierkegaard come la “concubina di Dio”.

In Kierkegaard la metafora della concubina è “cosciente”, mentre quello di Schreber è un delirio inconsapevole. Ho cercato anche le differenze tra la metafora utilizzata da Kierkegaard e quella utilizzata da Schreber notando che nel delirio inconscio di Schreber c’è più rapporto di quanto non ce ne sia nel “delirio consapevole” di Kierkegaard.

Perché la prostituta Schreber suscita la “voluptà” di Dio, cioè dell’altro, ne provoca il desiderio e l’appagamento. Da Dio viene posseduto dandogli dei figli. In Kierkegaard questa apertura al rapporto con l’altro non si dà perché la seduzione iniziale lo esclude dal rapporto con Dio. Altri punti di contatto riguardano l’omosessualità, collegata al complesso di castrazione, dove il bambino, per dare soddisfazione al padre, per avere il suo amore, ipotizza che l’amore del padre e per il padre gli debba costare l’evirazione. È l’idea di amore come sacrificio.

La fantasia di essere sodomizzato, Kierkegaard l’ha descritta in riferimento agli effetti che le musiche del Don Giovanni avevano in lui, perché sente che la musica potrebbe scatenare in lui questo tipo di inclinazione, senza che Kierkegaard sia in grado di analizzarla, come abbiamo fatto qualche passo sopra.

Una delle varie configurazioni del delirio di Schreber è nei confronti del medico che lo aveva curato la prima volta, verso il quale ha un trasporto omosessuale. Medico che Freud interpreta nuovamente come una figura paterna, cioè come un maggiore che lo aveva aiutato. Credo che sia interessante, perché il nocciolo di tutto è ancora il rapporto con il padre (a sua volta medico) nei confronti del quale si sente in difetto, non avendogli dato degli eredi.

Immagine Il sacrificio di Isacco
Il sacrificio di Isacco, Caravaggio, 1603, Galleria degli Uffizi, Firenze

Il tema del padre è ben rappresentato dalla tela del Caravaggio su Abramo e il sacrificio del figlio Isacco. Nell’appendice del suo bel testo si parla del non sacrificio di Isacco da parte di Abramo: vuole spiegarci meglio il tema?

Se il dramma di Abramo con Isacco (e viceversa) era ancora attuale per Lacan, che se ne occupa nel saggio Dei nomi del padre, lo dobbiamo alla ripresa che Kierkegaard fa in Timore e tremore. Nell’indice analitico dell’opera di Freud non c’è traccia di Kierkegaard, come neppure di Abramo e Isacco.

Leggi anche: Caravaggio, Lacan e il “non sacrificio” di Isacco

È un tema di cui mi ero già occupato, riprendendo il lavoro di Lacan sui “nomi del padre”. Se si ritiene che Kierkegaard mentre parla di Abramo e Isacco stia parlando della storia religiosa contenuta nella Bibbia, e soltanto di quella, ci si sbaglia, perché nella storia di Abramo e Isacco Kierkegaard iscrive la vicenda personale del rapporto col padre, e il suo rapporto con Regine. 

Inoltre sono due figure che egli gioca criticamente contro Hegel. In chiave anti hegeliana, Kierkegaard osserva come sarebbe impossibile mettere come premessa all’etica un crimine, peraltro così grave, com’è l’uccisione del figlio da parte del padre. Rendendo inutilizzabile la dialettica tra Abramo e Isacco ai fini hegeliani, Kierkegaard la rende però inutilizzabile anche ai fini della fede, perché l’elemento del figlicidio rimane centrale. Da questo punto di vista, la posizione di Kierkegaard invalida sia la parte hegeliana, sia quella del credente ed è una posizione conservatrice.

Kierkegaard è un conservatore: non volendo fare nulla per innovare, conserva, ed è la parte che io ho trovato interessante in un momento della storia contemporanea in cui la vicinanza col mondo islamico è sempre maggiore. Il mondo islamico ha mantenuto delle festività (la festa del sacrificio) istituzionali dedicate ad Abramo, mantenendo con le figure di Abramo e Isacco un legame molto più forte di quanto non sia stato mantenuto nel cristianesimo.

Kierkegaard è molto bravo a rendere drammatiche le situazioni, quindi ad attualizzarle e a renderle anche fruibili a un lettore contemporaneo, che diversamente si annoierebbe. Quando nel Diario descrive la discesa dal monte Moira di Abramo e Isacco, descrive un dramma, perché Abramo ha sì risparmiato Isacco, ma non riavrà più il suo amore, perché ha voluto ucciderlo. Ciò a cui Kierkegaard non perviene è l’idea che Abramo non sia l’uomo che accetta l’obbligo del sacrificio, ma quello che inizia un’era nella quale finisce il sacrificio. Questo è il guadagno di Freud ne L’uomo Mosè e il monoteismo.

Nel Terzo Saggio Freud afferma che con il cristianesimo inizia la religione del Figlio e finisce quella del Padre. Questa tesi c’entra con tutta la questione dell’eredità. Finisce l’epoca in cui il figlio è soggetto al sacrificio impostogli dal padre, fosse anche il grande Altro di cui parla Lacan, ma inizia l’era del Figlio, ovvero è il figlio che riconosce il padre come padre. Non so se mai ci sarà una contaminazione con l’Islam, nel caso spero avvenga su questo tema. 

In conclusione e concisamente, dove risiede l’inganno nell’amore?

Nel convocare l’altro al fallimento, anziché alla riuscita del rapporto.

AGGIORNATO IL: 10/09/2021

Crediti: https://it.wikipedia.org

Immagine di copertina: Foto di Юрий Урбан da Pixabay

 

Psicoanalista e psicoterapeuta. Già giudice onorario presso il Tribunale per i minori di Torino. Presidente Metis, Centro studi e ricerche di psicologia e psicoanalisi di Torino (CSRPP). Supervisore Casa di accoglienza Artemisia di Casale Monferrato.

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