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Contributo per una civiltà del non sacrificio
Il Sacrificio di Isacco è un’immagine artistica, un canone pittorico visitato in diverse epoche da molti artisti, ha avuto importanti espressioni scultoree e rappresenta anche una fondamentale traccia della filosofia moderna e contemporanea. Nel 1846 S. Kierkegaard scriveva infatti Timore e tremore, una delle sue opere maggiori e una delle opere maggiori della modernità, consacrandola completamente al dramma di Abramo con Isacco. Si tratta di un’immagine che continua ad appartenere all’uomo moderno a prescindere dalla precisione delle sue informazioni, è un’immagine della sua mente, una sorta di traccia mnestica, di cui dispone semplicemente per il fatto d’essere all’interno di una certa cultura.
Caravaggio, le due versioni
Caravaggio dipinge due volte il Sacrificio di Isacco, la prima nel 1601 e la seconda a pochi anni di distanza nel 1605 (ca.) [1].
Nonostante il breve lasso di tempo che intercorre tra i due dipinti, la differenza è tra le due opere è notevole. Osservando il quadro più recente (1605) colpisce, per contrasto con il primo (1601), l’immagine già quasi pacificata di Isacco. Il suo volto non è deformato dalla smorfia tremenda che invece così tanto impressiona nel primo quadro: il capo di Isacco è sollevato e il suo corpo, con le mani ancora legate, sta anch’esso per risollevarsi. Nelle due rappresentazioni pittoriche Caravaggio propone la scena da due prospettive temporali distinte e differenti. Mentre nel primo quadro Isacco è totalmente contemporaneo [2] all’azione drammatica, l’esito della quale non appare ignoto, quanto piuttosto sembra certo nel suo crudele esito mortale, nel secondo quadro Isacco vive la scena a partire da un istante meta-temporale, nel quale il dramma è già offerto all’osservatore come risolto e pacificato.
Nella la parte superiore del primo quadro (1601) troviamo gli elementi del canone già codificati e per questo essi appaiono in modo meno drammatico rispetto a quelli raffigurati nella parte inferiore. In particolare, nella parte superiore l’Angelo compie uno sforzo per trattenere Abramo, ma da esso non è sconvolto, il volto dell’Angelo non è turbato, com’è invece quello di Abramo, che è corrucciato e cupo.
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La figura di Abramo
L’attenzione che inizialmente voglio portare all’immagine è rivolta alla figura di Abramo confermato dalla centralità, in entrambi i quadri, come il protagonista dell’azione scenica. La frase: il sacrificio di Isacco, titolo di entrambi i quadri, è un genitivo oggettivo: Isacco non è il soggetto dell’azione sacrificale – non compie nessun sacrificio -, ne è invece l’oggetto: nell’azione drammatica Isacco viene sacrificato. A compiere il sacrificio è invece Abramo, tant’è che non pochi artisti usano un’altra dizione e parlano del “Sacrificio di Abramo”. Abramo è l’autore del sacrificio, Isacco è la vittima sacrificale. Il punto focale di questa riflessione lo porto dunque su Abramo, che nella tradizione religiosa viene messo alla prova, e che anche in una tradizione laica può ben rappresentare la tentazione di essere dannoso per altri. Utilizzando le immagini finora illustrate si può tentare anche un veloce test psicologico, chiedendo a un osservatore neutro di scegliere tra due opzioni interpretative. Cosa si vede nei due quadri? Un uomo che cerca di uccidere il figlio? Oppure un uomo che cerca di non uccidere il figlio? Ecco, questo è il bivio interpretativo; la scelta dell’interpretazione non è priva di conseguenze, da essa dipende tenere o rigettare Abramo come padre di una civiltà.
Di Abramo sappiamo poco, e quel poco lo sappiamo dai libri del Genesi, scritti tra l’inizio e la fine del periodo babilonese (VI secolo a.C.), ma la vicenda storica di Abramo è anteriore di quattordici secoli e fino al VI secolo a.C. era arrivata grazie alla tradizione orale frutto di molte stratificazioni, spesso in conflitto tra loro. In particolare, anticipo qui un passaggio che metterò maggiormente in evidenza nella conclusione dell’articolo, attraverso la filigrana dei secoli e attraverso la tradizione testuale che ci è pervenuta intravediamo due personalità molto diverse tra loro. Un Abramo ubbidiente e sottomesso alle tradizioni e, all’opposto, un Abramo uomo di rottura, sovversivo della tradizione [3]. Riprenderò questo passaggio tra poco. Abramo è comunque un uomo del ventesimo secolo (a.C.) e, seppur specularmente, possiamo considerarlo un “contemporaneo” sui generis, conflitti e contraddizioni comprese.
I 4000 anni che ci distanziano da Abramo sembrano un abisso, ma non lo sono affatto perché in talune vicende la storia va molto lentamente, diversamente da come la tecnologia odierna ci ha invece abituati. Al di là di ogni artificio retorico la contemporaneità di Abramo è ribadita dal trovarlo richiamato apertamente dagli autori che si sono mossi anticipando nel loro tempo i temi salienti del dibattito culturale odierno.
Lacan, i nomi del padre
Jacques Lacan [4], il noto psicanalista francese, ritorna su Abramo in uno dei suoi seminari, quello del 1963, intitolato Les noms du père. Fu l’unico appuntamento di quell’anno, perché la sera prima che Lacan prendesse la parola gli era stata revocata la carica di analista didatta della Società Psicanalitica Francese (poi i lavori lacaniani ripresero l’anno dopo, nel 1964 fino al 1973). In quella lezione così particolare, dove Lacan chiese che nessuno facesse domande, che nessuno intervenisse, a un certo punto, non in modo consequenziale (perché non era mai consequenziale nelle sue lezioni) Lacan si sofferma, quasi si dilunga, su Abramo. I nomi del padre, eccone uno: Abramo.
J. Lacan se ne occupa dopo un’estate di letture dedicate tra l’altro agli antichi testi ebraici del Talmud che raccolgono le meditazioni, talvolta secolari, sui libri della Torah. Il riferimento ad Abramo gli veniva a braccio, dentro una ripresa del tema non banale: “prendete uno dei due quadri dipinti dal Caravaggio, c’è un fanciullo, la testa è immobilizzata contro un piccolo altare di pietra, il fanciullo soffre, fa una smorfia, il coltello di Abramo è sollevato sopra di lui, l’angelo è lì. Ecco dunque l’angelo, che trattiene il braccio di Abramo, perché insomma, prima del gesto che lo trattiene, Abramo è venuto là per qualcosa, Dio gli ha dato un figlio, poi gli ha dato l’ordine di condurlo verso il luogo di un misterioso appuntamento, e là il padre gli ha legato le mani ai piedi, come a una pecora, per sacrificarlo” – pausa -. “Prima di commuoverci”, avverte Lacan, “come si usa fare in simili occasioni”, qui il rimando è alla pateticità di S. Kierkegaard che lo psicoanalista aveva citato pochi istanti prima, “dovremmo ricordarci che sacrificare il proprio figlio all’Eloim del posto (cioè alla divinità del posto, ndr), era usuale, e non solo a quell’epoca, infatti si è continuato a farlo così a lungo che è stato continuamente necessario che l’angelo o il profeta fermassero gli israeliti in procinto di ricominciare” [5].
La tradizione
Nel discorso di J. Lacan, Abramo viene fatto emergere come punto culminante e punto di svolta di una tradizione antichissima, dove il sacrificio del figlio, in particolare del primogenito, era costume [6].
Lo ricorda magistralmente Thomas Mann nella maggiore delle sue opere, la tetralogia che compone il grande romanzo Giuseppe e i suoi fratelli (1933-1943) di cui richiamo alcuni brani tratti dal I volume Le storie di Giacobbe (1933):
“Io l’ho intesa, quella voce. È Egli forse meno di Melech, il re-toro dei Baal, a cui nel bisogno offrono i primogeniti degli uomini e alle cui braccia, durante feste segrete, consegnano i neonati? E non può Egli pretendere dai suoi quello che Melech pretende da coloro che credono in lui? Ed Egli infatti lo pretese, ed io udii la sua voce e dissi: Eccomi!” [7].
“Altri lo chiamano Tifone e già all’inizio gli venivano attribuiti il Chamsin, il vento ardente del deserto, il calore del sole, il fuoco stesso, cosicché divenne il Baal Chammon, o il Dio dell’aperta vampa solare, e tra i fenici e gli ebrei prese il nome di Moloch o Melech, il re-toro dei Baal, che col suo fuoco divora i figli e il primogenito e a cui Abraham era stato tentato d’immolare Jizchak.” [8].
“Nel pavimento d’argilla era collocato un grande mortaio per testare il grano. Adina, la moglie (di Labano, ndr) era una matrona insignificante, con una collana di pietre variopinte, un ampio fazzoletto sulla cuffia che le copriva i capelli e una espressione del volto che per la sua freddezza ricordava quella del marito, solo che la linea della sua bocca era più amara che agra. Non aveva figli maschi, e anche ciò poteva spiegare l’umore tetro di Labano. Più tardi Giacobbe venne a sapere che nei primi tempi del matrimonio la coppia aveva avuto un figlioletto ma che era stato offerto in olocausto quando si era costruita la casa. Chiuso in un’anfora d’argilla lo avevano sepolto con le offerte di lampade e di piatti nelle fondamenta del nuovo edificio per attirare così benedizione e prosperità sulla casa e sulla fattoria.” [9]
Continuità e rottura
In questa luce la figura di Abramo si fa molto interessante. Egli esprime un punto di rottura, non un punto di continuità. Chi compie un sacrificio lo fa essendo consapevole di imitare gli antenati, e di portare avanti le tradizioni del gruppo di appartenenza; al contrario, la tradizione che porta a noi la conoscenza della figura di Abramo afferma che quest’uomo, spinto da un’ispirazione divina, lascia la sua terra, lascia le sue tradizioni, se ne dissocia, rompe con una civiltà e ne fonda un’altra [10].
Lo sottolinea anche J. Lacan: “la potenza di El Saddai (nome della divinità, ndr) si prova anzitutto perché è stato Colui che ha saputo estrarre Abramo dalla cerchia dei suoi fratelli e dei suoi pari” [11]. Lasciare la terra è un atto di rottura. La durezza di questa rottura è sottolineata dal verbo utilizzato dal testo biblico per indicare l’imperativo a cui Abramo deve sottostare: “vattene!” [12]. In questa chiave di lettura Abramo si affranca dalla tradizione che lo precedette e, come abbiamo detto, durò ancora molti secoli dopo di lui. In forza di questa rottura Abramo emerge dal ciclo routinario dei secoli non più come l’uomo del sacrifico, quanto piuttosto come l’uomo che interrompe una civiltà del sacrificio, ponendo se stesso come “l’uomo del non sacrificio”. Un uomo che arriva per mezzo di una personale meditazione, che possiamo anche chiamare ispirazione divina o azione dell’angelo, a un pensiero di innocenza, cioè un pensiero pratico di astensione dal recare danno. Approdo non scontato, quando avessimo davvero realizzato che lo stesso uomo partiva da un progetto diametralmente opposto, disponendo della capacità e della forza per attuarlo: è la parte più potente e perturbante del primo quadro di Caravaggio (1601), dove Abramo brandisce il coltello con braccio virile, portandolo con decisione alla gola di Isacco.
La figura dell’Angelo
La raffigurazione dell’Angelo è la raffigurazione dell’invisibile, ne parla anche Lacan senza tirare però tutte le conclusioni, ovvero che quella raffigurazione impossibile è la raffigurazione di un invisibile reale, il pensiero. Non un pensiero lineare che procede, senza ostacoli, da premessa a conclusione, ma un pensiero che approda a mete ambiziose attraversando conflitti potenti, come quello tra l’Angelo e Abramo nel primo quadro di Caravaggio (1601). Il premio di questo coraggio interiore è la possibilità di un dialogo più sereno. Questo è forse il senso che si può dare al secondo quadro di Caravaggio (1605 ca.) nel quale il grande conflitto è rappresentato in una forma già pacificata e risolta. L’Angelo sfiora appena il braccio di Abramo, mentre gli parla inaugurando “un dialogo rivoluzionario”, come recentemente i critici più acuti hanno saputo cogliere.
L’Angelo, allora, rappresenta l’accesso a un altro pensiero, che prende spazio nella mente di Abramo e con il quale Abramo deve fare i conti prendendo posizione per un nuovo orientamento e per un nuovo ordinamento. Dalle differenti raffigurazioni dell’Angelo nei due quadri cogliamo ancora due suggestioni: la forza sufficiente a fermare il braccio di Abramo e il consiglio potente: “la parola piena” che arriva a destinazione offrendo una via d’uscita al conflitto, una soluzione a portata di mano che l’Angelo indica nel “capro espiatorio”. L’angelo non si limita a un divieto, “non si deve e non si può”, il suo consiglio è efficace solo in quanto dotato di una reale capacità di soluzione.
Il non sacrificio
Ri-nominare il titolo di questi dipinti come opere del Non sacrificio di Isacco è un atto di profonda ri-significazione dell’esperienza, destinato a lasciare delle tracce profonde nella cultura e nella civiltà che fossero in grado di assimilarne il significato [13]. Avviandomi alla conclusione richiamo brevemente la festività islamica che cade ogni anno nel mese lunare islamico di Dhū l Ḥijja, dedicata al Sacrificio di Isacco, che viene ricordata per brevità come “la Festa del Sacrificio” [14], avvalorando una locuzione che riproduce un’ambiguità secolare.
Una sola parola cambierebbe completamente la prospettiva. Sarebbe come la scoperta di una nuova stella fissa per una civiltà di navigatori. Mentre l’enfasi del rituale islamico portata l’attenzione non sull’innocenza, ma sulla sottomissione della volontà di Abramo, la cui santità è sostenuta sulla base di una fede centrata sull’obbedienza. Qui l’importanza emblematica di Abramo per quella civiltà è incardinata nella sottomissione. Abramo avrebbe comunque obbedito, sottomettendo sacrificio e non sacrificio al superiore concetto (e valore) di obbedienza. Sottomessi nel loro significato all’obbedienza, sacrificio e non sacrificio divengono relativi, vengono assimilati, e assimilati si annullano.
Fede e sovversione
D’altronde neppure S. Kierkegaard [15], eminente rappresentante della civiltà cristiana, era riuscito a discostarsi da questa interpretazione. Se da una parte gli è impossibile promuovere a “padre della fede” un uomo disposto a sacrificare il figlio, dall’altra gli è pure impossibile promuove a “padre della fede” un uomo che non si fosse passivamente sottomesso alla (presunta) volontà divina. Stretto in questa morsa S. Kierkegaard consegna il suo Abramo a un assurdo: il famoso “salto della fede” di cui scrive in Timore e tremore. La condizione sine qua non della fede di Abramo, secondo S. Kierkegaard, è che egli sia effettivamente disposto a sacrificare il figlio, nella certezza che Dio glielo avrebbe comunque, misticamente, restituito. S. Kierkegaard porta il suo Abramo al bivio tra la civiltà del sacrificio e del non sacrificio ma non trova il coraggio, che fu invece di J. Lacan, di riconoscere al patriarca lo status di sovversivo e di remoto fondatore di una civiltà del non sacrificio.
Eppure, l’Abramo biblico, nella famosa preghiera del Libro del Genesi, l’intercessione per i giusti di Sodoma e Gomorra, ne aveva dato prova evidente, tenendo testa alla divinità, senza alcun “timore e tremore”, non essendo disposto a concedere alcuna confusione tra innocente e colpevole. “Abramo stava di fronte al Signore. Gli si avvicinò e disse: davvero tu vuoi distruggere insieme il colpevole e l’innocente? Forse in quella città vi sono cinquanta innocenti. Davvero tu li vuoi far morire? Perché invece non perdoni a quella città per amore di quei cinquanta? Allontana da te l’idea di far morire insieme il colpevole e l’innocente! Il giudice del mondo eserciterà forse la giustizia in modo ingiusto?” [16]
AGGIORNATO IL: 14/09/2021
[1] Il più noto è il dipinto del 1601 esposto alla Galleria degli Uffizi a Firenze, l’altro (1605), di più recente attribuzione, fa parte di una collezione privata a Modena ed è stato esposto, dopo i restauri, come opera monografica in diversi musei in Italia e all’estero.
[2] La contemporaneità dell’azione drammatica è confermata anche dallo sfondo. Uno dei rari casi nei quali Caravaggio raffigura un paesaggio a lui noto.
[3] Come per molti altri testi biblici si tratta di una redazione sacerdotale posteriore.
[4] J. Lacan (1901-1981)
[5] J. Lacan, Dei nomi del padre, a cura A. Di Ciaccia, contributi di J.A. Miller, Einaudi, p. 48
[6] A conferma può bastare una breve “navigazione” su un buon sito internet di antropologia. I brani che seguono sono citazioni del sito internet www.pegaso.it “Oggi tutto questo a ragione sarebbe inaccettabile, ma non dimentichiamo che il sacrificio aveva un ruolo importante dal punto di vista dell’aggregazione sociale. Chi compie un sacrificio lo fa essendo consapevole di imitare gli antenati, e di portare avanti le tradizioni del gruppo di appartenenza”. “I sacrifici umani sono presenti ancora nei greci e solo nel 97 a.c. il Senato Romano li vietò”. D’altronde sappiamo che il pater familias mantenne a lungo il diritto di vita e morte sui figli e ancora oggi in alcune culture, per motivi ritenuti gravi, il padre si arroga il diritto di vita sui figli, in particolare sulle figlie.
[7] Thomas Mann, Giuseppe e suoi Fratelli, vol 1, p. 102, Mondadori 1980.
[8] Thomas Mann, Ivi, p. 173
[9] Thomas Mann, Ivi, p. 212
[10] Dinamica di rottura e di nuova creazione che troviamo anche in altri grandi fondatori: Mosè, Antonio detto del deserto che abbandona la grande civiltà di Alessandria, Benedetto da Norcia con il periodo di eremitaggio a Subiaco, Francesco d’Assisi nel carcere di Perugia, Ignazio di Lodola nel periodo della malattia, e tanti altri senza dimenticare i 40 giorni nel deserto che precedono la predicazione di Gesù di Nazareth.
[11] J. Lacan, op.cit., p. 49
[12] Spesso tradotto con un neutro: “esci”. Vedi anche Gad Lerner, Scintille, (2009) “…nel mio tredicesimo (…) anno non ero andato oltre la lettura, con la mamma, di una riduzione della Bibbia, intitolata Eroi ebrei. Ricordo il disegno di Abramo che prima di lasciare la casa di suo padre (Lech lechà, Vattene!), distrugge gli idoli. Convenivo pure io che le statuette degli idoli non meritassero una considerazione divina, ma trovavo che ci volesse un bel coraggio, da parte del ragazzino, a distruggerli”.
[13] Vedi anche, Massimo Recalcati, Contro il sacrificio, (2009)
[14] īd al-aḍḥā (arabo:عيدالأضحى “festa del sacrificio”), o īd al-naḥr (عيد ﺍﻟﻨﺤﺮ “festa dello sgozzamento”)
[15] Cfr. S. Kierkegaard, Timore e tremore, Edizioni di Cominità
[16] Genesi 23,25.
Crediti: Lacan