Una parola che si teme, che fa molta paura. Un cancro della mente a cui non sappiamo dare confini, limiti. Il volto del depresso lo leggi nel vuoto di relazioni che non tendono alla speranza, al futuro, al cambiamento. Il volto del depresso langue in un deserto di emozioni che il cuore tende a nascondere, sopraffatti come siamo da una vita irrefrenabile. Un moto perpetuo che inabissa la nostra condizione interiore perché la società nega il diverso, il depresso, la persona melanconica. Mentre la vita si svolge su quel confine labile dove l’amarezza si alterna alla serenità, la sofferenza alla giocosità, la rabbia alla calma. Molti associano la depressione alla malattia, alla pazzia, a ciò che rende l’uomo passivo, privo di coraggio e di volontà. Spesso subentra ad un sentimento a cui facilmente ci accostiamo nel percorso vitae: la noia. Quel non senso del vivere quotidiano che viene enfatizzato da ruoli resi scarni da un’abitudine che vuole mancare di progettualità, di estro e di creatività.

Ruoli che consumano

Ruoli resi obsoleti che osserviamo in conoscenti smarriti, in educatori persi in un’illusione caotica che non ha tempi per fermarsi sui tempi dell’anima. Ruoli consumati in professionisti evanescenti come si avverte in alcune figure di medici, politici, professionisti rinchiusi nel loro super-ego. E la distanza aumenta incontrovertibile senza prevedere una cura che possa riparare a quei danni che la mente sottende. E la relazione in una società sempre più tecnica perde sempre più di valore sconfinando il rapporto medico – paziente, il rapporto educatore – studente, il rapporto politico -cittadino nei meandri della incapacità dialettica e insostenibilità empatica.

Quale soluzione?

È il ritmo frenetico della vita che ci ingabbia in una via senza soluzione? E come possiamo intervenire per incanalare verso la speranza quelle forze che la depressione emana per tentare di sanare un percorso che rischia di sprofondare nell’abisso? Come porgere aiuto a quelle persone che possono mettere anche a rischio la nostra vulnerabilità, a quei volti scarni senza rimanere intrappolati in un delirio di onnipotenza salvifico? La nostra vita dipende sempre da quel sottile equilibrio in cui barcameniamo le nostre esistenze: quel perdersi per poi ritrovarsi con il coraggio di sentirsi unici ed insostituibili in un tragitto che non ci vuole vinti. È quell’essere, poi, disponibili ad affrontare le “miserie” dell’altro imparando a tutelare la nostra parte sana che viene costruita giorno dopo giorno, e che va necessariamente rinvigorita ed impreziosita. In questo lavoro non facile, gioco-forza è imparare ad amare prima se stessi. Nella logica di questo divenire, per amarsi si deve intendere lo stato della ricerca interiore, dell’approfondimento finalizzato a porre in luce la propria autenticità, quell’interiorità creativa che spesso rappresenta l’antitesi ad uno stato del mondo che ci sommerge nei suoi valori avulsi dalla nostra integrità: il potere, il dio-denaro, la carriera atrofica.

L’aiuto che viene dall’Arte, dal Sogno…

L’arte, il lato creativo, il sogno appartengono ad una sfera più intima che, solitamente, siamo soliti temere perché esprimere l’interiorità cruda nella sua nudità ci mette a rischio, ci espone, ci rende più soli. Solitudine intesa come trasparenza del sé attraverso quei segni della mente che ha bisogno di ispirazione, fiducia, passione, per espandere le proprie possibilità. Nell’alternanza di questa vita che tenderebbe a renderci mediocri a quell’altra che, invece, ci spinge ad essere più coraggiosi e vitali, si intesse quella trama che sta a noi forgiare nel susseguirsi dei nostri giorni.

Il bagaglio culturale di chi costella il nostro percorso formativo può ingabbiare queste nostre energie o, altrimenti, sostenere questa ricerca finalizzata alla tutela di una speranza comune. Il bagaglio culturale deriva da chi cammina con noi accompagnandoci negli anni e spesso anche solo la funzione di un educatore aperto alla vita promuove comportamenti attivi e positivi; spesso anche un legame affettivo felice può definire quella maglia di riflessioni e di valori che l’anima ha bisogno di reperire per darsi un senso profondo. L’educatore in tal senso può reperire la sua funzione volta alla cura dell’altro, non rinunciando al vincolo di una sua professionalità affidataria, ma qualificando la sua capacità propedeutica in quella direzione dove l’impeto assume la forma della passione fiduciaria. Fiducia nel paziente che traslata dal medico diviene fulcro in una prospettiva futura di guarigione e di speranza verso la salute salvifica.

Dotarci di un senso

È possibile reperire un senso in queste direzioni se come individui crediamo nelle nostre possibilità, nelle capacità di nostre iniziative volte alla conoscenza interiore e alla sua tutela.

Riferendomi al bagaglio culturale desidero affiancarmi alla forte testimonianza di una cara persona con cui sono cresciuta: la nonna paterna. Lei ha segnato i miei pensieri oltre le mie possibilità obbligandomi ad un confronto dove lei emergeva come parte lesa ed io come parte alla ricerca del sé: io la nipote a cui la cultura, la conoscenza ha dato maggiori possibilità per imparare a tastare qualcosa che la mente difficilmente riesce a reperire nel suo significato profondo. La narrazione mi ha aiutata a varcare quella soglia, a delineare quella diversità. Mi ha aiutata a riscoprire un senso nuovo nella vita.

La narrazione come forma di Conoscenza

La narrazione come forma di conoscenza della realtà e costruzione di significati ci insegna ad affrontare l’incerto, il non conosciuto. La forte valenza formativa della narrazione consente al soggetto di riflettere sui vissuti cognitivi e affettivi.

Credo di aver desunto la semplicità dell’arte di raccontarsi e di dire attraverso le emozioni proprio da quella nonna che, mi dicono, avesse da giovane il dono dello scrivere con fluidità, la scioltezza dell’espressione in lettere che nascondeva anche a sé stessa. Era riuscita a dare poche svolte nella sua vita, ma quelle che era riuscita a realizzare scaturivano da quell’indole originaria che, ponendosi magistralmente in contatto con l’arte e la creatività interiore, setacciava i moti dell’anima, mediava gli intenti, cesellava, intrepida anche nel chiedere giustizia. Un esempio della sua meritoria capacità mi venne raccontato da adulta. La figlia, mia zia, era solo una bimba e si ricorda la madre mentre chiedeva, tramite lettera, alle autorità ecclesiastiche un aiuto per le ristrettezze economiche che pesavano prepotentemente sulla famiglia e per la mancanza di un lavoro che non permetteva al marito di rispondere alle necessità primarie di sussistenza.  Il nonno non sapeva più a quali risorse aggrapparsi per cambiare la situazione deficitaria in casa. Mi è stato raccontato che quelle parole furono salvifiche,  talmente profonde e dirette che a distanza di pochi giorni alcuni delegati della curia bussarono alla loro porta.

La nonna non vivacizzò mai questo suo spirito indomito e non lo assecondò, troppo presa dall’educazione dei tre figli, dal ruolo di madre e moglie, poco consapevole del dono ricevuto.

E credo fortemente, oggi, che quel moto dell’anima avrebbe potuto risollevarla, rinvigorirla, se coltivato nei suoi risvolti più autentici; solo se avesse avuto la possibilità di esercitare quella sua peculiarità che, forse, intravide appena. Quella scrittura poteva divenire la sua forza.

Scrivere come spinta ad iniziare

Io, questo percorso, sono riuscita ad affrontarlo perché la malattia di 24 anni fa, il cancro, mi ha dato la spinta iniziale. Lo scrivere di sé nasce da una domanda della mente. Chi si sente invadere dal pensiero di aver vissuto qualcosa che deve essere raccontato, attraverso la scrittura riesce a riconciliarsi con eventi dolorosi, traendone emozioni di pace, mitigando la propria soggettività, per aprire la mente ad altri orizzonti.

Credo che la nonna non sia stata in grado di riconciliarsi con sé stessa perché la strada che aveva reso inaccessibile e non conforme alla sua natura emozionale non le permetteva di mettere a fuoco il suo lato creativo. Certamente la scrittura come arte curativa e strumento terapeutico, per cultura, non scaturiva fra i suoi pensieri. Mentre nei miei sì: l’esperienza della sofferenza mi ha permesso di esprimere la mia interiorità attraverso questo sacro fuoco che sono riuscita a mettere in luce, mitigando quel conformismo di vita a cui siamo legati tutti per difesa, mitigando quegli iter formativi già obsoleti dalla omologazione imperante. Due generazioni più in là hanno permesso questa riconciliazione. La nonna ha iniziato ad infrangere i tempi della vita con una salute sempre più precaria, con uno stato avanzato di non – senso che si acuiva nel tempo portandola verso una depressione sempre più acuta.

Per quanto riguarda, invece, la zia, la sorella di mia madre, ho avvertito questo suo decadimento durante gli ultimi anni della sua vita. Non ho mai saputo quale infanzia dura l’abbia penalizzata in un percorso che, da adulta, si è rivelato impervio e contraddittorio. La zia alternava momenti di euforia a momenti meno felici dove il suo delicato equilibrio prorompeva con tutte le sue incertezze. Un amore contrastato e troppo idealizzato nella sua mente la sconfinava in deserti di solitudine dove l’immaginazione prendeva una direzione preferenziale rispetto alla realtà che la circondava. Negli ultimi anni ascoltava voci inesistenti, liberava il suo corpo in eccessi esibiti. Si allontanava da un mondo reale che rifiutava con sempre più insistenza. Due anni trascorsi in famiglia con noi misero a dura prova mia madre che cercò di aiutarla accompagnandola in terapia, sostenendola nella cura con farmaci che poco servirono a lenire il suo spirito. Ci lasciò per tornare a Napoli per una pausa che doveva essere temporanea ma che si rivelò, purtroppo, definitiva. La ricordo nella sua figura dondolante, come persa, con lo sguardo che fissava un vuoto che mi pareva assoluto. Un lavoro precario che non l’aveva mai sostenuta adeguatamente, un amore spoglio dove un legame quasi fanciullesco intorpidiva i suoi pensieri, una irrequietezza improvvisa che non la sollevava nello spirito e molto, molto altro ancora, che forse non so, definirono una strada accelerata nei suoi contorni. Una vita trafugata che ha sollevato, sempre, mille domande aperte.

Raccontando ci riempiamo di cose e di senso

Duccio Demetrio così bene scriveva e scrive nei suoi libri e la cui mia sottolineatura accompagnandosi al suo dire diventa sempre più verità: “Raccontando ci riempiamo di cose e di senso”.

Nonna ha sofferto e non è riuscita a dare spessore alla sua sofferenza: ha introiettato il suo dolore massificandolo nel tempo come una pietra tombale. Mentre io ho fatto un percorso diverso: ho voluto recuperare l’esperienza del dolore per consentirmi l’opportunità di dare nuove risposte agli interrogativi che mi sono posta nel momento in cui ho deciso di vivere appieno la mia vita. È stata, per me, una ricerca personale del mio senso che passava prima attraverso la ricerca del senso della malattia per arrivare a cogliere quello dell’intera esistenza. Se alla sofferenza, alla malattia, si riesce a dare un senso, allora tutto può diventare più accettabile; assume un ruolo, un significato. La malattia mi ha chiesto di essere coerente, trasparente, di riconciliarmi con le mie appartenenze. E la scrittura ha facilitato questo lavoro introspettivo.

La conoscenza di noi stessi è sempre mediata dal racconto autobiografico, poiché il testo che creiamo ci rispecchia e ci invita a reinterpretarci.

E cito una parte della mia testimonianza “Mi sto aiutando” di tanti anni fa per sottolineare l’importanza del tragitto interiore, che se tutelato, può aprire nuovi varchi alla conoscenza terapeutica.

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Da “Mi sto aiutando”

Il mio incontro con il tumore alla mammella è stato dirompente come penso per tutte noi donne. Tutto è iniziato nell’estate del 1998. Da poco venivo via da un periodo difficile e sofferto. La tipica crisi matrimoniale mi ha messo a dura prova e non ho avuto forze per contrastarla. Le mie autodifese si sono sterilizzate e ho immagazzinato eccessivo dolore per poter uscire indenne da una situazione che psicologicamente non mi dava tregua. A gennaio una mammografia eseguita all’ospedale S. Paolo, dove lavora mio marito, dava esiti negativi. Solo sei mesi dopo la situazione è cambiata, pesantemente. Solo oggi riesco a descrivere quei giorni di sofferenza, perché voglio aiutarmi per superare quel dolore. Credo che il male si possa attenuare solo parlandone, cercando di esternare quelle emozioni forti che si sono attaccate addosso e da cui ci possiamo salvare, se lo vogliamo in un cammino di speranza. Se dovessi confrontarmi con una donna che è passata o che attraversa simili vie, credo che le consiglierei di trascrivere, con parole dettate dal cuore, la sua esperienza, il dolore, l’angoscia che ha provato in quei momenti. Penso che la migliore terapia risieda in quelle parole, in quel vissuto esternato.

Le parole descrivono, trasformano, creano emozioni, indagano, evocano, colpiscono e fanno bene, parlano di sé stesse, eccitano il pensiero. Chiunque abbia tenuto un diario, in cui esprime i propri pensieri più profondi circa un’esperienza di sofferenza, sostiene che il tempo e lo sforzo ad esso dedicati, sono stati ampliamente ricompensati dai benefici ottenuti nella propria salute.

Come scrive Isabelle Allende nella sua autobiografia: “Paula”… “ la mia vita si fa nel narrarla e la mia memoria si fissa con la scrittura; ciò che non riverso in parole sulla carta lo cancella il tempo. Ma il racconto mi aveva preso e non potei più fermarmi, altre voci parlavano attraverso di me, scrivevo in trance, con la sensazione di andar dipanando un gomitolo di lana, e con la stessa urgenza con cui scrivo adesso. Alla fine dell’anno si erano accumulate 500 pagine in una borsa di tela e capii che non era più una lettera; allora annunciai timidamente alla famiglia che avevo scritto un libro. Quel libro mi salvò la vita. La scrittura è una lunga introspezione, è un viaggio verso le caverne più oscure della coscienza, una lenta meditazione”.

Il potere della scrittura terapeutica

Affinché la scrittura abbia un potere terapeutico, le persone devono comprendere meglio le loro emozioni, ed imparare da esse. Esiste uno “stato emozionale” vivo che ci penetra e al quale siamo legati indissolubilmente. Stanare quella interiorità involuta per evolverla verso l’accessibile, il confronto, l’apertura catartica, ci permette di darci nuove possibilità curative.

Questo ascoltarsi interiormente, dando vita al processo che ci ha costruiti come donne e uomini, non può che sollecitare, anche, una maggiore cultura dell’ascolto che diviene, oggi, sempre più necessaria e meritoria.

La vita intensa dei giorni nostri non ci permette quello sguardo aperto al futuro, non ci permette di assecondare le spinte dell’anima che hanno bisogno di tempo, di silenzi, di vuoti costruenti per ritemprare i pensieri, le nostre riflessioni. Godiamo di mille espedienti diversi (macchine, cellulari, computer) noi poco inclini a godere della nostra intimità, della relazione appagante, di quel senso profondo di noi che solo l’interiorità può svelare accompagnata da una sana introspezione. Perduriamo nei nostri errori svilendo anche quel rapporto con la natura che può renderci audaci e fecondi verso altre opportunità, con l’immensità dei cieli e della terra che ci sovrastano; perduriamo nei nostri errori con il disincanto di chi non vuole spendersi per costruirsi in grandezza. Abbiamo paura di abbandonare la nostra mediocrità che noi valorizziamo con oggetti di culto, denaro che pensiamo tranquillizzi le spinte della nostra anima ma che in realtà, nel tempo, le sterilizza definitivamente. E disperati, cerchiamo di colmare i nostri vuoti con l’insignificanza della vita.

La depressione chiede ascolto. Il male del nostro secolo chiede ascolto perché quella sottile trama si insinua quando il senso della vita perde la sua forza, quando la passione e la curiosità verso il mondo si adombrano rendendoci figure senza contorni specifici, deboli nella loro trasparenza.

La nostra follia

Noi allontaniamo i folli da noi, per non vederci e per evitare quella conoscenza di sé, che, per gli uomini d’oggi, è l’esperienza più inquietante. Lo psichiatra Eugenio Borgna, che è stato primario di psichiatria dell’Ospedale Maggiore di Novara, raccoglie tutte queste riflessioni in un suo libro molto toccante: “L’attesa e la speranza”. Egli ha la mente delicata di accostare il mondo della follia attraverso l’esperienza poetica, perché i poeti, come ci ricorda Heidegger: “Sono i più arrischianti; quelli che osano spingere l’esperienza umana fino al suo limite, affinché ceda il suo senso o il suo non senso, in quegli abissi di verità, che la poesia, la letteratura e talvolta la filosofia sanno raggiungere”.

Borgna racconta la sua esperienza personale nell’ospedale psichiatrico di Novara per tematizzare la relazione medico – paziente e dalla risposta a quell’attesa ignorata dallo sguardo del medico, che spesso non vede persone ma sintomi, non percepisce vissuti ma deragliamento di comportamenti, pensa di poter guarire un ‘anima prescindendo dall’anima”.

Quando lo sguardo si fa clinico, la competenza ha il sopravvento sull’umanità, l’estraneità sulla richiesta di comprensione, e l’attesa che modulava lo sguardo del paziente ricade su sé stessa delusa ed ignorata.

Quella stessa attesa che ho colto, molte volte nello sguardo di quella nonna che negli ultimi anni della sua vita ha solcato i mari della depressione. L’ àncora al suo passato ha bruciato qualsiasi possibilità futura. E siccome siamo noi a dar senso al passato, nella speranza c’è la libertà di conferire al passato la custodia di sensi ulteriori, mentre nel suicidio c’è l’illibertà di chi nel passato vede solo un senso impassabile e perciò definitivo. Come scrittrice ho spesso la netta percezione che l’arte creativa si accompagni a stati d’animo discordanti: momenti esaltanti a stati melanconici, vette e abissi. “Perché? – si domandava Aristotele, nel quarto secolo a C. “tutti gli uomini inclini alla filosofia, alla poesia, o alle arti, sono melanconici?”

Duemila anni dopo, un poeta inglese, John Dryden ( 1631-1700) scriveva: “ I grandi ingegni sono tutti imparentati con la follia, solo un’esile parete li separa, un bel distico che con il tempo è degenerato nel misero cliché:” C’è una linea sottile fra il genio e la follia”  Beh, ammettiamolo, una certa dose di verità c’è: un nesso fra la turba mentale e l’espressione artistica esiste, ma non chiamiamola necessariamente “ malattia”.

Ed è vero anche che la malinconia è un sintomo assai condiviso fra noi creativi. Lo stesso Othmar Pamuk, premio Nobel della letteratura, nel suo fecondo libro: “Istanbul “ci parla di melanconia, di tristezza.

Istanbul di Othmar Pamuk 

Ho letto quel libro con trasporto confidando in quel vissuto in cui mi rivedevo per tracce di senso quando lo scrittore delineava il suo vissuto, il percorso formativo. 

Mi calavo nella sua storia profonda mentre come in uno specchio lo vedevo ritratto in quelle immagini di città particolare che ho imparato ad amare, seppur non conoscendola.

Istanbul, la Turchia, quella nebbia silente che si sviluppa intorno al Bosforo. E l’ho fatto con gli occhi di Pamuk, attraverso il suo equilibrato narrare di biografo addolcito da tracce di città melanconica che accompagnava il suo stato umorale. Importante l’analisi che egli sottolinea intorno a questo sentimento che ci appartiene, da cui spesso impercettibilmente si fa strada la noia, uno sguardo muto sul mondo.

Attraverso le sue note melanconiche sono entrata nelle mie mentre un pensiero nuovo si affacciava nella mente. Perché comprendevo nei nuovi interrogativi e nella speranza di un progetto futuro, che quella stessa melanconia mi avrebbe permesso di fermare i pensieri su vecchie immagini. Avrei scolpito nelle mie riflessioni nuovi angoli bui che ho tenuto nascosti a me stessa. Perché mi sarei calata in quella melanconia positiva con quell’umore intriso di tristezza da cui avrei desunto nuove energie e linfa per fortificare l’essenza, la forza dell’interiorità svelante. E per tornare a quanto dicevo prima è qui, in questo passaggio che subentra la parola speranza. Sperare, infatti, non significa solo guardare indietro per vedere come è possibile configurare quel passato che ci abita, per giocarlo in possibilità a venire. È quel riassumere il passato che ci ha costruiti, passare attraverso quelle emozioni che si sono attaccate addosso nel tempo per dare un senso a quel passato nella speranza di conferire al passato la custodia di sensi ulteriori. È il dispiegamento, lo svelare che diviene catarsi nel momento di una riappropriazione. E non potevo che concludere questo mio articolo, sintonia della mia “follia” più sana, una poesia che ho scritto e che in parte allude a questo processo conoscitivo in cui la speranza funge da elemento cardine di grande portata e cambiamento interiore. La speranza di un futuro che possiamo in gran parte costruire noi. 

CHINA

China su queste pagine

bianche,

volgo lo sguardo

a quel cielo tetro,

simile ad un mare cristallizzato

nel ciclo affannoso delle stagioni.

Alberi come stendardi

chiamano al

rumore della primavera,

mentre

un guizzo di penna

mi stravolge al suo pensiero.

La natura

che mi confina nei meandri

della mia stanchezza fisica,

questa natura

che sa spogliarmi

come nessun altro uomo,

questa natura

a cui soggiaccio

con voluttà e passione.

Questa forza

che mi incatena

come nessun altro amore

è riuscito.

Invincibile e ferita

mi consegno

dedita a quell’ascolto

che mi fa prossima ad un infinito

che nella sua trasparenza

legge i miei contorni.

Presidente associazione La cura di sè, docente, formatrice e scrittrice. Docente di scrittura terapeutica e formatrice per operatori sanitari e educatori. Master per operatori con metodologia registrata Metodo Scarpante

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