Nel mio nido c’è una bimba di due anni che non riusciamo a coinvolgere, non parla, non ci guarda negli occhi, non ascolta, non gioca con nessuno. Forse è un po’ [sic!] autistica, tu puoi fare qualcosa?”. Un’amica, educatrice in un asilo nido del territorio, mi invita: “vieni almeno a conoscerla, la osservi e ci dici se si può fare qualcosa per lei”.

Inizia così la mia prima esperienza di musicoterapia nel campo della disabilità infantile.

Alice, girando nel giardino incantato,
domanda al giglio: ‘ma voi sapete parlare?’
e il giglio risponde:
‘sì, purché si abbia da parlare con qualcuno con cui ne valga la pena’.

Lewis Carrol
(Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò, 1871)

L’equipe educativa, che incontrai la settimana successiva, mi descrisse una situazione piuttosto preoccupante: la bambina non presentava alcuna forma di linguaggio spontaneo, ad eccezione di vocalizzi “strillati” nei momenti di rabbia e frustrazione, e metteva in atto numerose forme di stereotipie. Trascorreva il tempo al nido di fronte allo specchio oppure aprendo e chiudendo ripetutamente la porticina della casetta. Inoltre non si relazionava spontaneamente con gli altri bambini, né con le educatrici.

Questo articolo descrive l’intervento individuale a favore di Anna, una piccola paziente di due anni, con la quale in alcuni mesi di trattamento sono stati raggiunti obiettivi non solo insperati, ma soprattutto imprevisti. Infatti, sono emerse nella bambina risorse e capacità che hanno comportato una modifica sostanziale del progetto musicoterapico iniziale, fino a prevedere un lavoro specifico sulle potenzialità di espressione linguistica. Grazie all’elemento sonoro/musicale, la bambina ha potuto costruire con la musicoterapista una relazione sicura, in cui sperimentare nuove possibilità di comunicazione, fino a esprimersi con il linguaggio verbale, fino allora del tutto assente.

Immagine xilofono
Il setting e gli strumenti in musicoterapia, xilofono, flauto, tamburello

Primi incontri con Anna: l’osservazione

L’intervento vero e proprio è sempre preceduto da una fase di osservazione, in cui l’osservatore utilizza il vissuto interiore nel processo di conoscenza dell’altro, al fine di “vedere” ciò che normalmente non viene visto. L’osservatore mette “tra parentesi” ogni interpretazione aprioristica, ogni teoria e ogni forma di giudizio; si dà spazio alla descrizione invece di tentare di spiegare. È svincolandosi da schemi conoscitivi precostituiti che l’osservatore può accostarsi, con empatia, all’esperienza emotiva del paziente, creando con lui un’intensa relazione e diventando con lui co-protagonista dell’esperienza che il paziente fa di sé. L’osservatore, quindi, deve ESSERE e SENTIRE, più che pensare e capire. Deve astenersi da ogni intervento: essere passivo implica il NON soffocare il soggetto, o il paziente, con le proprie azioni e le proprie parole, ma anche con le proprie teorie e i propri schemi culturali e intellettivi.

Quindi osservando Anna durante le consuete attività educative al nido: la bambina non presentava deficit motori, né compromissione sensoriale (uditiva o visiva). Partecipava alle attività educative scegliendo tra i giochi o i materiali proposti, ma utilizzandoli in maniera impropria e inusuale, ad esempio recandosi davanti allo specchio e dondolandoli in aria, oppure usando gli attrezzi giocattolo come pettine o ancora gli animali di gomma come telefono. Presentava una predilezione spiccata per l’utilizzo degli specchi, presenti a mezza parete in entrambi i locali del nido. Anche in presenza di stimoli specifici e attività per lei interessanti, Anna trascorreva gran parte del tempo di fronte allo specchio, solitamente portando con sé anche gli oggetti o i giochi proposti dalle educatrici. La bambina non metteva in atto alcuna risposta specifica a seguito di richiami, indicazioni o divieti dell’adulto.

Nessuna interazione con gli adulti o con i compagni, ad eccezione di qualche urlo di protesta in occasione di giocattoli contesi con altri bimbi.

Però, c’è sempre un però (come diceva una mia paziente ultraottantenne che seguivo in RSA in un progetto di musicoterapia di piccolo gruppo!): con l’evidente obiettivo di smentire almeno in parte le descrizioni delle sue educatrici del nido, Anna instaurò fin da subito nei miei confronti una ricerca attiva di contatto fisico, sedendosi sulle mie gambe o cercando i miei abbracci. Mi correva incontro non appena varcavo la soglia del nido, l’obiettivo “osservazione attenta e partecipe” era stato trasformato in “tu stai ferma che io mi arrampico su di te!”. Decisi di approfittare ed anticipare l’osservazione di Anna nell’esplorazione sonora libera, sparpagliando sul pavimento di uno stanzino dedicato alcuni strumenti musicali, che lei puntualmente decise di utilizzare portandoli uno a uno davanti allo specchio e usandoli come pettine, come cornetta del telefono o fingendo di mangiarli (in effetti alcuni erano a forma di frutta!). Anche mostrando ad Anna che questi “limoni” e questi ovetti producevano suoni diversi, lei li dondolava sulla sua testa, sempre fissando la propria immagine riflessa. Peggio ancora con il mio amato e costosissimo glockenspiel, che appena posato sul tappetone riceveva su di sé una bambina piuttosto robusta in salto a piedi uniti. Ad ogni modo, non si poteva dire che gli strumenti non le interessassero, anzi.

Va bene così, sfida accolta. Al termine di alcuni incontri di “osservazione”, comunicai all’equipe dell’asilo nido che sì, si poteva fare un progetto individuale, con due sedute di musicoterapia alla settimana, a patto di poter utilizzare lo stanzino in via esclusiva, in modo da poter allestire un setting con strumenti musicali seri (e soprattutto più resistenti).

L’obiettivo primario dell’intervento a favore di Anna era favorire la sua capacità di stare in relazione grazie all’utilizzo dell’espressione sonoro-musicale, cercando di instaurare una relazione “possibile”, per consentirle di uscire dall’isolamento, senza però cadere in un rapporto di tipo fusionale.

Una parentesi teorica

Suono e musica fanno parte della vita di ciascun individuo fin dal ventre materno (il battito cardiaco, il ritmo respiratorio, i rumori intestinali, la voce materna parlata e cantata). Tutti questi stimoli vanno a formare un vero e proprio imprinting sonoro musicale in base al quale i bambini nascono con una “competenza a comunicare”.

A maggior ragione per i bambini disabili, in cui la comunicazione è difficoltosa, il linguaggio sonoro-musicale è linguaggio privilegiato tanto da permettere l’espressione e la comunicazione anche alla presenza di difficoltà mentali, fisiche o del linguaggio verbale.

I princìpi che orientano le sedute di musicoterapia con i piccoli pazienti sono la valorizzazione del bambino, il tendere al suo benessere e alla possibilità di utilizzare il canale sonoro-musicale quale mezzo espressivo e comunicativo. Nei bambini con disabilità, è quindi possibile grazie alla musicoterapia migliorare le abilità motorie, di comunicazione e le relazioni sociali. Ci sono moltissime ricerche che mostrano che la musica è molto motivante per i bambini ed è molto raro trovare un bambino la cui attenzione non sia catturata dalla musica.

Gli obiettivi dell’uso della musica con i bambini disabili varia necessariamente da soggetto a soggetto, anche in funzione del tipo di disabilità. La musica può tuttavia contribuire, in ogni caso, alla nascita e al consolidamento di acquisizioni che vanno ben oltre quelle musicali: sicurezza, esperienze cognitive, socializzazione, superamento di fragilità emotive etc.

Immagine di setting musicoterapico
Il setting e gli strumenti in musicoterapia, gli strumenti della piccola Anna

Dalla parte del bambino

Lorenzetti (1983) auspica la possibilità di predisporre, a favore dei piccoli pazienti con disturbi della relazione, un intervento “dalla parte del bambino”. È necessario abbandonare il concetto di bambino – risposta (che risponde allo stimolo riabilitativo fornito dall’adulto, educatore o terapista che sia) per arrivare al bambino – proposta, artefice e protagonista delle sue scelte di fronte ad un adulto collaborante, pronto ad animare la proposta, attivando progressivamente nel piccolo paziente il piacere del proporre e gratificando il fare del bambino facendo con lui. Lorenzetti afferma: “Il desiderio di vita di ogni bambino sembra dipendere dalla sopravvivenza in lui di una speranza buona, più forte delle delusioni cui inevitabilmente egli va incontro […] il bambino può crescere in virtù di un dinamico equilibrio, dentro di lui, tra speranza e delusione. Per contro un bambino può morire se la delusione è distruttiva, cioè in grado di trasformare la sua speranza in disperazione”. Le delusioni di cui parla Lorenzetti non sono soltanto e sempre dovute alle azioni che gli adulti rivolgono ai bambini, ma fanno parte della dinamica tra desiderio e bisogni propria della mente infantile. Questo vale anche per patologie gravi, che compromettono le capacità di relazionarsi: proprio quando la mente infantile rischia di non trovare spazio o possibilità di espressione, a causa dell’handicap, è opportuno occuparsi di lei nella dimensione della speranza.  

Torniamo ad Anna

Il lavoro terapeutico è durato per alcuni mesi, insieme abbiamo superato le 30 sedute, esclusi gli incontri di osservazione. Al fine di favorire la relazione con la bambina in un contesto rassicurante ma allo stesso tempo stimolante, sono stati facilitati per tutto il percorso sia i momenti di mia osservazione durante l’esplorazione sonora spontanea di Anna, sia i momenti di interazione tramite filastrocche, contatto fisico e produzione sonora, fino ad arrivare ad un vero e proprio dialogo sonoro sullo stesso strumento o su strumento differenti, ma con analogie timbriche.

Fin dagli incontri di osservazione, Anna metteva in atto una serie di comportamenti volti alla ricerca di un contatto di tipo fusionale, che io ho in parte accolto, almeno inizialmente, favorendo una relazione affettiva di contenimento e di rassicurazione. Anna cercava continuamente di essere presa in braccio e, se mi sedevo sul tappeto vicino agli strumenti, si acciambellava sulle mie gambe. L’iniziativa di tutto ciò che accadeva nelle prime sedute di fatto competeva a me e mancava del tutto la possibilità di un rapporto reciproco, per cui l’adulto “esisteva” solo se si realizzava un contatto fisico di adesione. Emergenza! L’obiettivo di lavoro era diventato: passare dal contatto fusionale a una possibilità di dialogo, in cui fossero attivi due interlocutori in contatto tra loro ma distinti (anche se non necessariamente “distanti”!).

Insieme abbiamo fatto un sacco di cose: ascolto di CD e ballo insieme con filastrocche e canzoni per bimbi; esplorazione sonora e improvvisazione musicale con strumenti diversi (piccoli strumenti etnici e a percussione, come ovetti, maracas, tamburelli, campanelle, e grandi strumenti melodici, come tastiera, chitarra, fisarmonica, glockenspiel tenuto insieme con lo scotch); esplorazione vocale e canto (ho utilizzato in molte sedute la filastrocca con i nomi delle dita, sostituendoli con i nomi delle parti del corpo -testa, pancia, piede, mano-).

Nel corso delle sedute, ha cercato e mantenuto il contatto visivo con me, seppure questo passasse spesso attraverso lo specchio. Già, dimenticavo, Anna pretendeva che tutta l’attività musicale avvenisse davanti allo specchio, per cui trascorreva il primo tempo della seduta traslocando tutto il setting, poi mi sono persuasa a prepararlo direttamente nella zona a lei gradita. La sua attenzione alla mia persona è stata sicuramente un fattore indispensabile per arrivare gradualmente a una “giusta distanza”, grazie non solo all’elemento sonoro-musicale, ma anche alle attività di gioco e alle filastrocche.

Durante i momenti improvvisativi, ho affiancato Anna nella produzione sonora, rispecchiando inizialmente solo con l’utilizzo della voce, dati i suoi rifiuti al mio intervento attivo sullo strumento da lei suonato. Dopo alcuni tentativi, ha accettato che io suonassi sullo stesso strumento!

Iniziava così a farmi spazio.

Infatti, le interazioni con la piccola paziente hanno evidenziato un graduale passaggio da una tendenza all’isolamento a una capacità di relazione. Anna, mentre inizialmente allontanava le mie mani dagli strumenti (o prendeva i battenti che usavo), volendosi dedicare da sola alla produzione sonora, è stata in seguito in grado di instaurare un vero e proprio dialogo sonoro, alternandosi con me e lasciandomi il turno di sua iniziativa, per poi riprendere a suonare.

Ho osservato anche una differente modalità della bambina di ricercare il contatto affettivo: mentre durante le osservazioni e le prime sedute chiedeva spesso di essere presa in braccio, restando sulle mie gambe a lungo, in una sorta di abbraccio fusionale, gradualmente è passata a dedicare la maggior parte del tempo insieme a me suonando e dialogando attraverso gli strumenti, pur cercando saltuariamente un bacio o un abbraccio.

Nel prossimo articolo parlerò dei progressi di Anna.

Riferimenti bibliografici:

Lorenzetti M. (a cura di) “Autismo, psicosi infantili e musica” (Quaderni di musica applicata, PCC, 1983)

Crediti: Foto Setting dell’autore; Xilofono – pixabay.com Immagine di copertina: Musica foto creata da gpointstudio – it.freepik.com

Psicologa e psicoterapeuta, musicoterapeuta ed esperta di clinica transculturale. Coordinatrice di comunità educativa, formatrice e psicologa clinica transculturale

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