Nel greco antico diagnosi è “conoscenza attraverso, per mezzo di”. Conoscere è apprendere per confronto e sintesi fra analogie e differenze. Conoscere per riconoscere, e farne uso. L’indagine diagnostica si muove in quell’incerta e labile zona di confine fra normalità e malattia, definite in base agli strumenti usati per rilevarne ricorrenze e scostamenti, privilegiando di volta in volta valori statistici o tratti peculiari del singolo soggetto, la quantità che induce alla regola o la qualità che evoca l’eccezione. Obiettivo ultimo è la cura, cui si dedica il pensiero che spiega, muovendo dalle cause, e quello che mira a comprendere, cogliendo il senso.

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Fare diagnosi

Definiamo il termine diagnosi come il giudizio clinico che consiste nel riconoscimento di un processo morboso in base ai sintomi che esso presenta, e nel riferimento di tale giudizio alle forme morbose tipiche, descritte in patologia. Altro significato, per estensione: parere che si esprime su un fenomeno (politico, letterario, economico, giuridico, ecc.) dopo aver preso in considerazione le caratteristiche e gli aspetti con cui si manifesta.

È altrettanto utile definire il termine morboso: “Che riguarda una malattia (anche in rapporto con le cause, le origini, i sintomi, gli effetti); che ha carattere di malattia; che provoca l’insorgere di una malattia o, anche, di una condizione di salute precaria; patologico, patogeno”. Altra definizione: “Che è causa di malattie, che produce effetti nocivi alla salute; malsano, insalubre; che emana miasmi, esalazioni mefitiche”.

Definire la malattia

Quindi riconoscere la malattia ci porta a doverne considerare il concetto. Nella storia dell’evoluzione del pensiero medico (e non) intorno alla malattia, a lungo ha prevalso una visione “ontologica” della condizione patologica, in virtù della quale si considerava la malattia come una “cosa”, un “ente” dotato di una propria realtà autonoma, che viene ad aggiungersi alla realtà organica del malato.

Tale concezione risale indietro nel tempo, sin al XVII secolo, ma è sopravvissuta fino ad oggi: non solo troviamo questo concetto tuttora diffuso nell’uso comune del linguaggio popolare, ma anche in molti “addetti ai lavori”, soggetti che abitualmente hanno a che fare con la sanità. Constatiamo la sopravvivenza di “spiegazioni dei fatti” una volta “scientificamente” provate, ma poi smentite e abbandonate, che continuano invece ad alimentare e sostenere le cosiddette “credenze” sociali e che costituiscono, a volte, il “sapere” a noi più immediatamente accessibile.

A partire dal XIX secolo la malattia è definita sulla base di due aspetti fondamentali:

  • la rottura (il venir meno, l’alterazione) di un equilibrio precedente, che si presumeva preesistente;
  • la reazione dell’organismo di fronte a una causa perturbatrice esterna.

Questa innovazione, per così dire, è stata resa possibile dallo sviluppo degli studi fisiologici e batteriologici e anche dall’introduzione dell’esperimento nell’indagine biomedica, che ha portato alla nascita della patologia sperimentale e al pensiero causale.

Causa, effetto. Scrive Claude Bernard (Introduction à l´étude de la médecine expérimentale): “La medicina d’osservazione ammette una scienza delle malattie, cioè delle entità morbose, come scienza a sé stante. Per il fisiopatologo invece non esistono le specie come entità da classificare; egli non vede le condizioni di vita normale o anormale. Pertanto le malattie e le loro specie non sono che l’insieme dei caratteri che risultano dalla combinazione dei fatti, ma non dalla loro natura. Non esistono pertanto malattie propriamente dette, ma soltanto funzioni alterate da meccanismi di diverso tipo”.

In genere la malattia è uno stato alterato del normale equilibrio con cui i fenomeni biologici si svolgono, e dalla reazione dell’organismo, il quale tende a riportare le funzioni alterate al loro valore ideale. Potrebbe essere una definizione accettabile se ci dicesse qualcosa di più sui limiti tra il normale e patologico e quindi su come rilevare e definire morbosa una certa situazione.

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Quale normalità

Quindi, poiché la malattia trae origine dall’idea di una supposta “normalità”, pare opportuno visitare anche questo concetto. Sappiamo bene quanto i fenomeni biologici siano soggetti a un’ampia variabilità individuale, e che i valori variabili in una popolazione omogenea assumono nella maggior parte la distribuzione data dalla curva a campana di Gauss.

Appare quindi evidente che la “normalità” di un carattere non può identificarsi con un singolo valore, ma almeno essere compresa all’interno di un tratto, un divario tra qui e lì, definibile come la percentuale entro la quale nel maggior numero degli individui possano essere statisticamente rilevati uno o più valori. Ciò ci porta ad affermare che il concetto di stato normale e il concetto di malattia trovano il loro fondamento scientifico nella e sulla base di “ricorrenze” evidenziate da una rilevazione statistica.

Scrive Mario Umberto Dianzani (Trattato di patologia generale, Utet 1985): “La definizione dello stato normale è quanto mai difficile e si può dire che essa può essere data soltanto su basi statistiche, e che il patologo ha assoluta necessità dei criteri statistici per la definizione del concetto di malattia, il quale ha sostanzialmente basi quantitative”. Questo concetto di normalità basato sui dati statistici è il più diffuso tra i patologi e i clinici perché si fonda su criteri “scientificamente” rilevabili.

Valori statistici

Ritengo importante sottolineare come tale orientamento produca una adesione – prevalente se non totale – del mondo medico al dato extra soggettivo, non tanto perché non si tiene sufficiente conto del soggetto (argomento su cui torneremo), ma nel senso che si è orientati all’ideale statistico massificante piuttosto che alle differenze individuali.

Questa visione delle manifestazioni etichettate come “normali” e “malate” non è esente da gravi difetti di fondo, cui si muovono altrettanto pesanti critiche: riconoscendo normale solo ciò che rientra entro certi limiti, più o meno artificiosamente stabiliti, pecca di arbitrarietà, e inoltre lascia aperta la possibilità d’errore per un numero elevato di individui. Infine, la concezione statistica è insoddisfacente per comprendere ciò che clinici e patologi intendano per normalità e malattia.

Sulla base di queste considerazioni è andata formandosi una nuova corrente di pensiero, che concentra l’attenzione sullo scostamento di un carattere non da un valore statistico, quanto piuttosto da un valore ideale e desiderabile, che dovrebbe costituire il vero punto di riferimento del mondo clinico attuale. Si eliminerebbero così inconvenienti e limiti del “pensiero statistico”, evidenziando peraltro un nuovo problema: l’identificazione del valore ideale o desiderabile.

A tale proposito Giovanni Federspil scrive: “Tralasciando ovviamente considerazioni di tipo assiologico che non riguardano la medicina come scienza naturale, ed esaminando il problema alla luce della biologia generale, il valore ideale o desiderabile sarà quel valore di un carattere che, in certe condizioni ambientali, dà al soggetto la maggior probabilità di sopravvivenza e alla specie, della quale quel soggetto fa parte, le maggiori probabilità di conservazione.” (Logica clinica. I principi del metodo in medicina, McGraw Hill 2003).

Anche il più famoso Konrad Lorenz scrive: “Le coppie di concetti ‘sano e morboso’, ‘normale e patologico’ si possono definire soltanto in base a un criterio teleonomico, cioè in base alle maggiori o minori probabilità di sopravvivenza che ogni qualità individuale offre a un certo organismo vivente in un ambiente dato”.

Questa posizione è condivisa da Georges Canguilhem e anche, in modo più radicale, da Henri Péquignot, il quale sostiene che “la nozione statistica della normalità non è oggi più sostenibile”; infatti a suo giudizio “mentre da una parte noi chiamiamo malattia (e con ragione) un certo numero di alterazioni che sono, in una data popolazione, infinitamente più frequenti dello stato di salute, come avviene ad esempio nella carie dentaria, […] da un’altra parte noi chiamiamo malattie degli stati nei quali la diagnosi non può essere fatta sulla semplice mancanza di benessere dell’individuo”; pertanto conclude che “l’uomo ha il diritto di scegliere: egli ha il diritto di chiamare patologico ciò che respinge; egli ha diritto di chiamare normale ciò che si augura, ma il normale e il patologico sono due aspetti, soggettivamente gradevoli o sgradevoli per l’uomo, di una stessa realtà.” (Initiation à la médecine, Masson, Parigi, 1961).

Georges Canguilhem scrive: “Non vi è affatto vita senza norme di vita, e lo stato morboso è sempre una certa maniera di vivere; […] l’uomo è sano in quanto è normativo relativamente alle fluttuazioni del suo ambiente”. Ancora: “È dunque in primo luogo perché gli uomini si sentono malati che vi è una medicina. Non è che successivamente gli uomini, dal momento che c’è una medicina, sanno in che cosa sono malati.” (Il normale e il patologico, Guaraldi, Firenze, 1975).

Gli stati morbosi e i processi morbosi differiscono. Negli stati morbosi l’organismo si trova menomato o alterato in qualche suo carattere in modo stazionario, e dunque non possiamo considerarlo ammalato anche se l’organismo nel suo insieme può trovarsi in uno stato di sofferenza, e ciò proprio perché la sua caratteristica fondamentale è la stazionarietà. I processi morbosi, o malattie, sono invece condizioni transitorie caratterizzate da fenomeni regressivi, reattivi e riparativi i quali danno luogo a un insieme integrato di eventi. Tale differenza è di grande importanza, da non dimenticare.

Sulle caratteristiche generali delle malattie Guido Vernoni (Trattato di patologia generale) scrive: “È legge fondamentale in patologia che quando la materia vivente passa dalle condizioni di salute a quelle di malattia, essa non muta nella sua essenza – cioè qualitativamente – il suo modo di funzionare reagendo difensivamente. Non crea nessuna funzione veramente nuova, nessun intervento difensivo ignoto alla vita normale”.

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Classificazioni 

Riguardo alla nosografia (lo studio descrittivo e classificatorio delle malattie) vanno citati Giovanni Federspil e Cesare Scandellari i quali, prendendo in esame l’evoluzione storica delle classificazioni morbose, rilevano che “la patologia speciale attuale non riconosce più un unico criterio di sistemazione nosografia come avveniva al tempo di Morgagni e a quello di Rokitansky e di Virchow. Nel suo ambito molti paradigmi si contendono il primato senza che qualcuno di essi abbia la forza di imporsi agli altri come la teoria più potente, e la nosografia appare come un territorio conteso da eserciti avversi, nel quale spesso è dubbio se la singola valle o la singola collina appartengono a questa o a quella armata.” (Scoperta e diagnosi in medicina, Piccin, 1983).

Un certo paradigma vuole la nosografia fondata su un criterio rigidamente causale (che spiega per esempio il virus), mentre in quei settori in cui non è possibile introdurre un criterio eziologico la sistematica appare basata o su un criterio morfologico (per interpretare malattie degenerative, quali ad esempio ulcera peptica, neoplasie del tubo digerente) o addirittura su basi sintomatologiche (per descrivere emicrania, diabete mellito, iperlipemie).

I grandi numeri e le eccezioni

Partiti da considerazioni generali per definire il concetto di diagnosi, in base al quale affinare quelli – sempre sfuggenti e scivolosi – di malattia e normalità, concludiamo questo excursus affrontando brevemente il tema della individualità in medicina. 

L’esistenza delle patologie speciali implica evidentemente che la singola malattia sia da intendere come un determinato susseguirsi di fenomeni e processi biologici alterati nella loro intensità, provocato da un’unica causa o da un gruppo di cause. A questa concezione, accettata dalla grande maggioranza dei medici, si sono opposti, negli ultimi due secoli, alcuni clinici i quali asseriscono che i diversi tipi di malattia sono costruzioni astratte elaborate dall’uomo, sostenendo così la preminenza dell’individualità, cioè delle caratteristiche biologiche individuali nel determinismo dei processi morbosi. 

Un concetto sintetizzato in forma lapidaria da Henry Sigerist (A History of Medicine, 1951): “La malattia non esiste in quanto tale, mentre esistono individui ammalati”. 

Le teorie individualiste avevano già trovato sostenitori in Achille De Giovanni (Commentarii di Clinica Medica, Draghi, Padova, 1888-1893) e Giacinto Viola, caposcuola della medicina costituzionalistica italiana basata sul concetto di biotipo costituzionale: “Sono in gioco nella produzione dei vari caratteri della malattia organi e tessuti che reagiscono ognuno in modo variabile secondo la legge dell’individualità di fronte a un medesimo stimolo, e le varie lesioni entrano nella scena nosologica ora prima, ora dopo, ora con grande ora con minima intensità, ed altre volte non si presentano affatto […] per cui invece di forzare i dati clinici a rientrare nelle caselle nosologiche prestabilite […] si farà di ogni paziente una speciale e libera costruzione patologica ben adattata al caso, nella quale si terrà conto di tutte le varietà del substrato individuale e del suo modo di reagire così diverso, e inoltre della variabile intensità degli stimoli”. 

L’individuo e le etichette

Tali larghe aperture “ideologiche” al soggetto e alla sua individualità sia nel campo della clinica medica sia in quello della psicologia clinica hanno favorito la sempre maggiore diffusione dell’approccio idiografico (la storia della persona che ho qui davanti a me, mente e corpo, il suo percorso di vita, le sue rappresentazioni, le esperienze familiari e relazionali peculiari e distintive come elementi cruciali per una formulazione diagnostica attenta al particolare) da usare in soccorso – quando non in alternativa – al criterio nomotetico, viceversa imperniato sulla legge, la regola generale, le costanti e la prevalenza, i grandi numeri, le etichette statistiche.

Contro le quali già Immanuel Kant ammoniva nel 1798 nella sua Antropologia pragmatica: “Ci sono medici che quando hanno trovato dei nomi pensano di aver trovato delle malattie e di poterle, in forza del nome trovato, anche curare”.

Etichette che ancora resistono e prosperano specie nel campo della psicopatologia. Basta il titolo: Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, il celeberrimo DSM che nell’Introduzione ribadisce: “Negli Stati Uniti la necessità di raccogliere informazioni statistiche ha dato la spinta iniziale allo sviluppo di una classificazione dei disturbi mentali”. 

Alla luce di quanto è stato detto, i termini “statistico” e “classificazione” non sembrano più così ingenui. Tutto il manuale diagnostico si basa su due concetti di malattia ormai abbandonati dalla medicina organica e fisiologica da molti anni. 

E noi psicologi non di rado siamo messi in crisi da medici che non ne vogliono sapere, o non sanno tener conto, della sua evoluzione.

AGGIORNATO IL: 14/09/2021

Crediti: Uomo, Donna , Medicine Immagine di copertina: Donna in attesa in un corridoio

Psicoanalista e psicoterapeuta. Già giudice onorario presso il Tribunale per i minori di Torino. Presidente Metis, Centro studi e ricerche di psicologia e psicoanalisi di Torino (CSRPP). Supervisore Casa di accoglienza Artemisia di Casale Monferrato.

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