Il tema dell’approccio femminile alla realtà è di grande attualità. Alcuni importanti riferimenti sono presenti anche nell’ultima Enciclica di papa Bergoglio, ‘Fratelli tutti’, dove il Papa si sofferma a riflettere sul tema della gentilezza come contributo dell’approccio femminile alla realtà e come antidoto al narcisismo dilagante.
Nella sua Enciclica papa Francesco valorizza l’approccio femminile alla realtà specificando che esso “può essere fatto proprio dagli uomini o rinnegato dalle donne (il corsivo è di chi scrive)”. Non è dunque qualcosa di istintivo, quanto piuttosto lo dobbiamo pensare come un’attitudine coltivabile, o al contrario rinnegabile, del pensiero di ciascuno: uomo o donna.
Mi ha subito colpito la vicinanza della riflessione di papa Francesco con i temi sul femminile che la psicoanalisi sta elaborando da oltre un secolo. D’altronde non è un segreto che questo Papa abbia una certa dimestichezza – non solo teorica – con la psicoanalisi. Senza alcuna censura ne diede Lui stesso notizia in una conferenza stampa, informando i media di tutto il mondo che quando si trattò di scegliere uno psicoanalista il futuro Papa elesse per sé una donna, forse non del tutto a caso, ebrea. Me ne sono occupato anche nell’articolo Il Papa dallo psicoanalista. [1]
Prima di buttarci nel tema che fa da centro per questo articolo, occorre precisare che il termine “realtà” nella psicoanalisi, diversamente che nella filosofia o nella scienza, non indica “la cosa” o “l’oggetto”, ma sempre un altro soggetto, come noi. Un possibile partner o una persona ostile, o una persona che ci annulla con la sua indifferenza ecc.: Freud ne parla nell’articolo La perdita della realtà nella nevrosi e nella psicosi (1924).
Vero è che anche la psicoanalisi – e più ancora la psicologia – ha fatto la sua parte per confondere le acque introducendo l’oggetto come mèta della pulsione. Tuttavia, meglio precisarlo, l’oggetto è sempre l’altro, così quando ci si imbatte ad esempio nell’espressione ormai comune “costanza d’oggetto” o mancanza della “costanza d’oggetto” non è difficile capire che l’oggetto mancante è l’altro della relazione o meglio il suo amore, la sua considerazione, la sua fiducia, la sua stima, il suo apprezzamento ecc.
Tranne nei primissimi anni di vita, dove il neonato non ha “questioni di sessi” ma solo di “buon trattamento” (Giacomo B. Contri), l’altro entra nella relazione con la sua connotazione sessuale, o con le sue incertezze in proposito.
Come sicuramente già sapete la psicoanalisi ha isolato due importanti figure dell’elaborazione inconscia a proposito del “femminile”: la donna fallica e l’invidia del pene. Entrambe le figure non sono teoriche, ma semplici annotazioni: registrazioni di pensieri, ricordi, sogni, paure, desideri di uomini e di donne. Se avvertite il bisogno di conferire al discorso un tono culturalmente elevato posso suggerire un supporto poetico: il mito di Ermafrodito, figlio di Ermes e di Afrodite, di cui sono note anche delle statue antiche e moderne, ad esempio di Antonio Canova. Di Ermafrodito sono famose due versioni: l’Ermafrodito dormiente e desto.
La prima apparizione in psicoanalisi del pensiero della donna fallica, ovvero una donna dotata del pene, si trova nel Caso clinico del piccolo Hans (1908), un bimbo di cinque anni affetto da una fobia, curato da Freud attraverso colloqui con i suoi genitori. Hans, dotato di pene, era solito attribuirlo universalmente a ogni essere, vivente o meno, tra essi anche alla donna, in particolare alla madre a cui aveva esplicitamente chiesto se lo avesse. Domanda alla quale “la sventurata” rispose: sì (!). Se la domanda di Hans vi risultasse strana, potrei assicurare che non è rara la testimonianza di madri o puericultrici a cui bimbi, della stessa età di Hans, l’hanno rivolta – più o meno insistentemente – solo un secolo più tardi.
A rinforzo della fattualità del pensiero fantasmatico della donna fallica (non va dimenticato che i pensieri che si fanno sono sì dei dati di fatto, ma non di meno possono essere erronei – oltre che veri) ricordo che sono numerosi i materiali raccolti in letteratura: sogni, fantasie, ricordi, allucinazioni o pensieri consapevoli di donne reali che confermarono a Freud il “dato di fatto psichico” del “pensiero della donna col pene”, passato poi alla storia come “invida del pene”.
Cosa abbiamo dunque? Un pensiero di uguaglianza (egualitario). Tutti ce l’hanno (il pene) o lo devono avere. In sintesi, abbiamo la formulazione del pensiero del sesso (uno), che è la negazione del pensiero dei sessi (due). Uniti da questa uguaglianza nella nevrosi, uomini e donne sono anche uniti dalla medesima paura: dalla minaccia della perdita. In psicoanalisi tale paura è stata interpretata come “complesso di castrazione”: temuto come possibilità dagli uni, sospettato come trauma dalle altre.
La psicoanalisi ha classificato il pensiero della “donna fallica” e la correlata “fobia di castrazione” come un errore tipico della nevrosi, ovvero di un’elaborazione tipica di una psicopatologia molto comune a livello individuale e culturale. In altre parole, la psicoanalisi vi individua un errore di civiltà. L’errore millenario della donna pensata da uomini o donne come mancante: alla donna mancherebbe un quid, per essere un soggetto risolto, all’altezza di ogni situazione. Nell’ultima stagione della serie televisiva The Crown la primo ministro Thatcher lo afferma di tutte le donne, tranne rare accezioni.
Il trattamento analitico della teoria nevrotica della donna mancante durante una terapia, quando il lavoro dell’analisi – che, detto per inciso, si fa sempre in due – arriva a maturazione, ovvero quando la coppia analista-analizzando infila la via di una guarigione individualmente possibile, dà luogo alla caduta del pensiero fobico della castrazione.
Così come si dice: lasciar cadere qualcosa di inutile o dannoso, un pensiero ossessivo o svantaggioso, una cattiva abitudine, un brutto vizio o una cattiva amicizia. Si tratta comunque di un’operazione intellettuale che l’analisi rende possibile, una sorta di emendazione dell’intelletto, come avrebbe detto Spinoza, o di taglio netto con l’errore, l’inutile e il dannoso come avrebbe detto Ockham, il filosofo del famoso rasoio, o una fruttuosa potatura come si afferma nel vangelo di Giovanni: “ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto”.
Ad ogni modo, nel passaggio dal “complesso di castrazione” al “lasciar cadere” si produce un ulteriore vantaggio perché viene meno la paura per la minaccia di una violenta menomazione fisica. Essa in modo primitivo sta a simboleggiare per il soggetto una frustrante sottrazione di piacere e di soddisfazione che compare in diverse – e colorite – espressioni gergali come “rottura di b…e” o altre varianti, che sono utilizzate con una certa soddisfazione linguistica sia da uomini sia da donne.
Il pensiero della mancanza e della perdita viene dunque trasformato durante l’analisi, grazie a un lento e complesso processo di elaborazione conscia/inconscia, in un pensiero di vantaggio relazionale di cui una delle cartine di tornasole più evidenti sono i sogni. Ad esempio, nel sogno (non incubo) del paziente che, senza incertezza sulla propria identità sessuale, sogna di essere la donna dell’analista, di avere con lui un rapporto sessuale come donna, o dell’analista uomo sognato come donna, e altri con analoghe varianti, talvolta anche apparentemente di natura omosessuale.
Della caduta del “complesso di castrazione”, ovvero dell’uscita dal pensiero nevrotico della perdita e della mancanza, Freud parla in una delle sue opere più importanti, Analisi terminabile e interminabile (1937). In essa il fondatore della psicoanalisi afferma che la mèta di ogni analisi è la conquista dell’accesso al lato femmineo dell’esperienza umana. Un accesso appunto da conquistare per Freud sia per gli uomini sia per le donne. Infatti il rifiuto psichico – di pensiero – al femmineo è un bivio di fronte al quale si troverà ogni analizzando durante la propria analisi. Tale bivio riguarda l’apprezzamento della costituzione del corpo della donna, a partire dalla forma accogliente che favorisce il ricevere, pensato come un atto (non una passività), che la psicoanalisi assume come una facoltà, o un attitudine coltivabile a partire dal privilegio dato all’ascolto (atto ricevente) sulla parola (atto ponente).
L’ascolto, atto tipo dello psicoanalista, è un’esaltazione del femmineo, della modalità ricevente attuata dal corpo stesso dello psicoanalista (quando lo è per davvero) uomo o donna. Il privilegio dato dalla psicoanalisi all’ascolto esprime una volontà di accoglienza, mai meramente passiva, dell’altro, del suo pensiero e della sua posizione. Il “femminile” come attitudine e preferenza coltivata dall’analista a creare in se stesso il posto per l’altro coincide al tal punto con il successo della formazione di uno psicoanalista, uomo o donna, da consentire a Giacomo Contri la felice conclusione: “il femminile è lo psicoanalista (se lo è psicoanalista)”, condensando in una singola frase un intero trattato sulla formazione in psicoanalisi. [2]
AGGIORNATO IL: 11/09/2021