Kadija è una giovane donna marocchina, madre competente di una figlia grandicella e molto responsabile (Sara di 16 anni) e di un ragazzino vispo e disobbediente (Ahmed di 12 anni). Viene in Italia con i figli per ricongiungersi al marito Mustafa e, una volta arrivata, rimane incinta del terzogenito. Mi viene segnalata da un servizio pubblico per una situazione di disagio psichico (depressione e ansia) e di sostegno alla genitorialità poiché al bimbo nato in Italia, di 3 anni di età, è stato diagnosticato un disturbo dello spettro autistico.

Alla proposta di un percorso psicologico individuale, Kadija reagisce con grande ambivalenza: se da un lato, riconosce di stare male e ha bisogno di parlare con qualcuno, dall’altro pensa di “non essere così matta”, ma sia il marito sia la figlia la invitano a venire perché la vedono spesso in lacrime o in forte ansia. Le si spiega in un primo incontro di conoscenza, che il servizio psicologico transculturale è dedicato a tutte le famiglie migranti che stanno attraversando un momento difficile e che i colloqui con lei saranno occasione per confrontarsi insieme sui problemi di Youssef e su come possiamo aiutarla come mamma.

“E’ una differenza gigantesca, là non pensavo a niente, qua troppi pensieri, tanto che è entrata la paura” (Kadija)

Kadija

Kadija si descrive come una mamma “militare”, molto severa e normativa nel rapporto con Sara, mentre ammette di essere stata molto più permissiva con Ahmed, tanto da essere ripresa dalla sorella maggiore e “accusata” di viziarlo e lasciargli fare tutto ciò che vuole. Ahmed, fin da piccolo, diventa famoso in famiglia per non avere rispetto degli adulti, nemmeno dello zio materno che tutti temono.

Questi figli trascorrono con lei i primi anni della loro vita nella casa dei nonni paterni, insieme agli zii e ai cugini, e frequentano le scuole in Marocco, fin dalla scuola dell’infanzia, finché nel 2008 avviene il ricongiungimento del nucleo in Italia.

Chiedo a Kadija di parlarmi del loro progetto migratorio: mi racconta che nella famiglia di Mustafa sono in 7 fratelli, 5 maschi e 2 femmine. Tutti i maschi, nell’arco di pochi anni, sono venuti in Italia, condividendo un appartamento acquistato con un mutuo; invece le sorelle sono rimaste a vivere in Marocco. Inizialmente, Mustafa diceva a Kadija di non voler vivere definitivamente in Italia e quindi di non volervi portare moglie e figli: “Non è bello stare in Italia, non ti porterò mai con me. In Marocco è tutto meglio, anche la scuola”. Poi però i fratelli di Mustafa hanno portato, uno ad uno, le loro mogli in Italia e anche Mustafa ha “cambiato pensiero”, proponendo a Kadija di raggiungerlo con i bambini, così Kadija viene in Italia con Sara e Ahmed (13 e 10 anni al momento della migrazione), è felicissima perché desidera stare con il marito tutto l’anno e non soltanto in estate, e anche perché una delle sorelle era già venuta in Italia dal marito un anno prima.

La felicità e l’entusiasmo di Kadija si infrangono nelle prime settimane in Italia: la solitudine e il disorientamento prevalgono e Kadija racconta di aver trascorso due mesi in lacrime, le mancano molto la madre e i suoi famigliari e che si trova a dover fare tutto da sola, Mustafa lavora tutto il giorno e sia lei sia i suoi figli non capiscono e non parlano l’italiano. È molto dispiaciuta per i suoi figli che faticano a integrarsi a scuola, in un’età già delicata.

Le chiedo come ha fatto a uscire da questo momento difficile e lei risponde che si è data da fare, dedicandosi alla casa e alla cucina, così “i pensieri si sono calmati” e pian piano le cose si sono sistemate. I due coniugi decidono di avere un terzo figlio, Kadija racconta di una gravidanza difficile: sentiva dei movimenti strani, come se la schiena si “strappasse”, e ha pensato più volte: “qualcosa non va, questa gravidanza non va bene, è strana”. Anche il parto è molto diverso dai due precedenti: Mustafa, questa volta, è in sala parto con lei, anche se lei non vorrebbe, per aiutarla come interprete, dato che Kadija non si esprime ancora in italiano e lo comprende molto poco; l’ostetrica le dice di aspettare a spingere e lei si spaventa molto perché sente che il bambino va “dentro e fuori” e vede che è diventato tutto blu perché non respira bene. Quando Kadija torna a casa con Youssef, la sorella e la suocera vanno a casa sua ad aiutarla, ma si fermano soltanto per 3 giorni, mentre in Marocco, racconta, le donne di famiglia stanno dalla puerpera per 40 giorni. Appena si trova da sola a casa, Kadija sente tutta la responsabilità su di sé: “Non avevo la testa tranquilla”.

La storia di Youssef

Kadija racconta di una maternità molto difficile con Youssef: ogni volta che lei è da sola piange, si deve occupare del piccolo, ma anche della casa e degli altri figli e sente di non farcela. Youssef è un neonato inconsolabile, piange in continuazione e l’unico modo per placarlo è tenerlo in braccio o attaccarlo al seno. Kadija si descrive come sempre indaffarata, con un braccio che fa tutto e l’altro che tiene Youssef. Durante i primi mesi, cerca di metterlo giù, per fare i mestieri, ma poi si sente in colpa, così se lo lega sulla schiena con la fascia e continua a fare mestieri tutto il giorno, dice “correvo sempre e non dormivo mai”.

All’età di 5 mesi, Youssef ha una crisi respiratoria e diventa tutto blu, viene ricoverato per 9 giorni perché ha valori di saturimetria molto bassi. Kadija dà la colpa alla casa, in cui forse c’è poco ossigeno, dice “quando era a casa diventava blu, poi uscivamo e diventava rosa, poi a casa di nuovo blu”. Da questo primo episodio, a cui ne seguono altri analoghi, Kadija vive in un costante stato di apprensione, rivolgendosi al Pronto soccorso almeno una volta al mese anche per un semplice raffreddore del bambino, per il timore che Youssef smetta improvvisamente di respirare. All’età di 14 mesi, smette di allattarlo e Youssef dopo 2 giorni ha la sua prima crisi convulsiva, dovuta a febbre alta, che gli provoca anche perdita di coscienza. Kadija durante il racconto piange, molto turbata, e riferisce che è stato Ahmed ad accorgersi della crisi convulsiva del fratellino e ha richiamato l’attenzione della madre gridando: “Guarda tuo figlio!”. Queste convulsioni da febbre sono soltanto il primo episodio di una problematica ricorrente che angoscia molto Kadija, ogni volta è come se vedesse morire il piccolo Youssef, che durante le crisi rovescia indietro gli occhi, trema tutto, non risponde e non reagisce più. Queste crisi sono occasione di numerosi accessi al Pronto soccorso. In uno di questi ricoveri, un pediatra nota che Youssef (che ha in quel momento 18 mesi) utilizza in modo anomalo i giocattoli e non si relaziona all’adulto, per cui consiglia ai genitori una valutazione NPI. Kadija fino ad allora aveva notato che Youssef non giocava come gli altri bambini, ma credeva che fosse un po’ spento e passivo per gli antipiretici somministrati nei frequenti episodi di febbre e convulsioni.

Emerge a questo punto del racconto di Kadija un’importantissima distinzione: anche Sara e Ahmed hanno sofferto, fino ai 3 anni e mezzo/4 circa, di febbre e convulsioni e anche con loro Kadija si è recata spesso in Pronto soccorso in Marocco. Tuttavia, la stessa Kadija riferisce di essersi sentita, in Marocco, una madre competente, in grado di chiedere tutte le informazioni necessarie ai medici e di potersi rivolgere, anche in autonomia, ai medici che vicino a casa sua ricevono giorno e notte, per cui lei vi si recava a piedi senza appuntamento. Inoltre, quando Sara aveva le crisi convulsive, era la suocera a intervenire, tranquillizzava Kadija, prendeva in braccio la bambina, la stringeva forte e dava indicazione ai presenti di fare rumore agitando un mazzo di chiavi, oppure faceva annusare alla bambina un liquido nero [“catrame”], per “mandare via” la crisi. Qui in Italia è tutto più difficile, Kadija non è in grado di chiedere ai medici del Pronto soccorso e della Pediatria chiarimenti, né può andarci da sola e il marito, da lei sollecitato più volte di fronte al personale sanitario a chiedere informazioni dettagliate sui malesseri di Youssef, la mette a tacere, per non disturbare troppo il “dottore italiano”. Questa impossibilità linguistica di interloquire liberamente con i sanitari in Italia getta Kadija ancora più in una situazione di profondo disagio e frustrazione, afferma “tornavo dall’ospedale italiano molto arrabbiata con mio marito perché, invece di chiedere ai dottori cosa stava succedendo a Youssef, mi diceva ‘adesso basta, stai zitta’”.

Sono una brava mamma?

Secondo Kadija, Youssef è “così” per colpa sua, perché lei fin dalla sua nascita è sempre presa con le faccende di casa e non gli parla mai, né gioca con lui, invece Sara e Ahmed sono cresciuti in Marocco con i cuginetti. Kadija ritiene che il figlio abbia un ritardo nel linguaggio, dovuto alle numerose convulsioni, che lo hanno in qualche modo “danneggiato” o “rallentato” nei tempi di apprendimento. Kadija reinterpreta alcuni comportamenti bizzarri: Youssef lancia gli oggetti dappertutto perché, non volendo vedere gli adulti seduti, così li costringe a muoversi per raccogliere le cose dal pavimento. Secondo lei, non è vero che a Youssef dà fastidio il caos all’asilo ed è fermamente convinta che le maestre lo isolino perché morde e picchia i compagni. 

Riprendiamo il tema delle cure tradizionali: Kadija dice che in Marocco è più semplice “tenere insieme” le cure tradizionali con quelle mediche simili all’Italia, invece qui è molto difficile, anche perché lei qui è da sola. Da quando è in Italia ha provato ad utilizzare qualche rimedio tradizionale nelle occasioni di crisi di Youssef (ad esempio, il “catrame” da far annusare al bambino), ma il marito non è d’accordo, minimizza l’effetto di questi metodi e la sollecita a rivolgersi al pediatra per la prescrizione di farmaci. Aggiunge che già dal parto, le differenze l’hanno messa in crisi, a partire dalla presenza di Mustafa in sala parto, lei ha accettato malvolentieri e lo ha fatto restare dietro di lei, per “non vedere tutto”. 

Kadija racconta che, appena nato Youssef, Mustafa la criticava sempre e la incolpava di non occuparsi né di se stessa né del marito: “la casa era sempre perfetta, secondo lui io stavo sempre a pulire e cucinare e la sera non avevo le forze per dedicarmi a lui che tornava da lavoro”. Mustafa l’ha più volte rimproverata perché si dedicava troppo alle pulizie e poco a parlare con Youssef e a dargli delle regole, incolpandola di fatto dei sintomi del figlio. Il marito ha ripetuto questa spiegazione così tante volte, che Kadija si è convinta di essere la causa dei problemi di Youssef. 

Chiedo a Kadija se si sente ancora in colpa per Youssef, risponde: “in generale no, ma ho paura che durante la prima crisi convulsiva ho peggiorato la situazione, perché sono corsa fuori in strada con il bambino in braccio a chiede aiuto e posso avergli scosso il cervello e mischiato i contatti”. Restituisco alla signora che invece secondo me è stata proprio brava a reagire immediatamente e a chiedere aiuto, avrebbe potuto bloccarsi per lo spavento, invece ha fatto in modo che il figlio fosse visitato da un medico in tempi rapidi.

Riprendiamo la tematica del “sentirsi in grado” come madre di affrontare le situazioni critiche. Lei è molto spaventata e sfinita perché “Youssef fa cose strane e pericolose e bisogna sempre stare vicino a lui, ogni momento”. Kadija ammette sconsolata “prima l’abbiamo viziato, adesso possiamo solo sgridarlo, ma lui si arrabbia di più. Lo picchiamo per fermarlo e fargli capire le cose, ma lui reagisce picchiando”. Kadija racconta di un programma TV in cui davano consigli su come trattare questi bambini speciali e suggerivano di essere fermi ma calmi e dolci e di parlare piano, “io faccio tutto il contrario!”. È molto stanca, è scoraggiata: “Dice il Corano ‘dopo il difficile viene il facile’, ma per ora è tutto difficile”. Kadija lo sgrida di continuo, anche se riconosce l’inefficacia del rimprovero e se poi si sente terribilmente in colpa: “Già non sta bene, poi io lo sgrido anche!”. Inoltre, è molto contrariata perché, in occasione delle visite a casa dei parenti, questi fanno sparire tutto ciò che può essere lanciato e rotto, perché è capitato che Youssef lanciasse e rompesse i soprammobili. Kadija, con il magone, dice: “è come se arriva il ‘rompitutto’, loro non sanno che lui ha questa malattia e quindi lo considerano un gran maleducato. Nella cultura marocchina, sarebbe considerato un ‘fuori di testa’ quindi preferisco dire il meno possibile ai parenti e agli amici, per proteggerlo di più”. 

Le chiedo se non c’è nessuno nella sua famiglia con cui lei se la sentirebbe di parlare e confidarsi, ma dice che preferisce non raccontare i problemi di Youssef a nessuno. Tuttavia, al colloquio successivo Kadija riferisce di aver parlato al telefono con la sorella Mina, che vive in Canada, e di averle raccontato nel dettaglio la situazione di Youssef. Ora scopriamo che la sorella di Kadija è un’insegnante della scuola per l’infanzia e si occupa anche di bambini come Youssef! Mina dice a Kadija che va benissimo che ci sia un’insegnante di sostegno e che si pensi all’inserimento in una scuola speciale. Mina è la sorella più grande di Kadija e fin da piccola si rivolgeva a lei per chiederle consigli.

Eziologie e cure tradizionali

Nel corso dei colloqui con Kadija, sono emerse, spesso in maniera implicita e sottointesa, numerose spiegazioni della malattia del figlio Youssef. Kadija ha ipotizzato di essere lei stessa la causa dell’autismo, raccontando di non essersi dedicata a lui, di avergli parlato poco e di non aver giocato con lui, di aver accettato, suo malgrado, di farlo vivere in un contesto (in terra di migrazione) povero di possibilità per Youssef di crescere con altri bambini che fossero di stimolo per le sue capacità intellettive e sociali. Kadija più volte verbalizza di non essere in grado di accudirlo al meglio, fino ad accusarsi di avergli “mischiato i contatti del cervello” correndo in strada con il bimbo in braccio in cerca di aiuto. Allo stesso tempo, nella narrazione della sua storia, in modo meno manifesto, attribuisce la colpa delle convulsioni a entità invisibili, da scacciare via con il rumore delle chiavi o con l’odore del catrame. Kadija esprime, già nel racconto di ciò che avveniva in Marocco durante le convulsioni della primogenita, una perfetta sinergia di metodi di cura tradizionali (chiavi, catrame) e di metodi scientifici “alla occidentale” (ricorso al medico e somministrazione di tachipirina). Questo binomio, reso solido ed efficace dalla presenza di una figura forte ed esperta (la suocera) è di difficile, se non impossibile, realizzazione qui in Italia, ove Kadija si ritrova da sola, non può recarsi dal medico ogni volta che vorrebbe in autonomia, ma soprattutto non può interloquire con un medico di fiducia, ponendo tutti i suoi quesiti, venendo addirittura zittita dal marito per “non disturbare o infastidire il dottore”.

Ma Kadija sa anche essere una donna e una madre competente, accetta la proposta di un intervento psicologico, racconta di sé e della propria storia, mi accoglie dentro casa e coglie gli spunti di riflessione che le ho proposto, trasformandoli in fattori di crescita per sé e per il rapporto con i suoi figli.

Pensando a tutti gli interlocutori che si sono messi in movimento a favore di questa famiglia (servizio psicologico transculturale, NPI, pediatra, assistente sociale, scuola per l’infanzia, scuole speciali) mi sono domandata se si possa considerare questo gruppo “invisibile” o diffuso come possibile fattore terapeutico, in grado di contenere i pensieri di Kadija e di ridurne l’angoscia. Sapere di essere “pensata” e aiutata da tutte queste persone e istituzioni ha forse funzionato davvero come un grande gruppo contenitore in cui poter rimettere ordine e recuperare chiarezza nei pensieri e competenza genitoriale.

Psicologa e psicoterapeuta, musicoterapeuta ed esperta di clinica transculturale. Coordinatrice di comunità educativa, formatrice e psicologa clinica transculturale

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